— Non ho tempo di vederlo. Cosa vuole?

— Chiede altre truppe per dare la caccia ai partigiani negri sulle montagne. Dice che potrebbe farli fuori tutti, se i G.V. gli dessero un po' di materiale di prima linea.

Mekkis non voleva pensare ai partigiani negri, occupato com'era a cercare di capire un punto particolarmente ostico della logica illogica del Trattato: Punto di convergenza, azione a distanza e percezione extrasensoriale. Disse a voce alta: — Dategli quello che chiede, però tenetelo d'occhio e non seccatemi più.

— Ma...

— Basta così. — Mekkis sfiorò con la lingua il pulsante che serviva per cambiare fotogramma nel proiettore di microfilm.

Il Bav si allontanò alzando le spalle, e il governatore dimenticò subito lo scambio di parole, mentre si sprofondava di nuovo nel mondo crepuscolare di Punto di convergenza.

Quando Gus Swenesgard venne informato della decisione del governatore, per bocca del segretario Bav, chiese: — Ha detto che posso avere quello che voglio?

— Sì — rispose il segretario.

Con un largo sorriso, Gus disse: — Per prima cosa, vorrei che tutte le truppe da combattimento dei G.V., attualmente presenti nel governatorato, venissero messe sotto il mio comando. — Rifletté un momento, con aria sognante, poi riprese: — Ho intenzione di riorganizzare la struttura governativa.

— Chi credete di essere? — chiese il segretario, in tono asciutto.

Gus ridacchiò, dando una manata sulla schiena del segretario.

— Adesso qui comando io — disse. Uscì dal quartier generale dei G.V. fischiettando soddisfatto. Sapeva esattamente quello che, per motivi a lui ignoti, aveva ottenuto.

 

Davanti a sé, Paul Rivers intravide una strada maestra sulla quale viaggiava un autocarro con rimorchio che filava veloce nella notte. Azionando con mano leggera le leve di comando dell'aerauto, si chiese: "Perché no?". Il veicolo rispose senza slancio, però in breve Paul calava dietro l'autocarro, raggiungendolo dalla parte posteriore.

Ecco! Staccò la propulsione ionica, e l'ultima erogazione di potenza bastò perché l'auto s'infilasse all'interno dell'autocarro, passando dalla metà superiore aperta del rimorchio, per abbattersi con uno schianto sul carico. Il conducente si girò di scatto, sconcertato, e si trovò a fissare, attraverso il finestrino della cabina, il fucile laser che Paul gli puntava contro. — Continuate così — ordinò Rivers, sovrastando con la voce il rombo del motore.

— Il padrone siete voi — disse il conducente con un sorriso stentato, riportando subito gli occhi sulla strada. "Deve averci scambiato per rapinatori", pensò Paul. "Alla prima occasione cercherà di avvertire la polizia." E, naturalmente, la polizia sarebbe accorsa in un attimo.

Il conducente, però, era un negro. — Percy — disse Paul in tono urgente — tornate in voi e spiegate al conducente chi siamo. Presto!

Al suo fianco, Percy sbatté le palpebre; poi, letto con rapida analisi il pensiero di Rivers e quello del conducente, urlò: — Ehi, vecchio, sai chi sono?

Scrutando nello specchietto retrovisore, il conducente disse: — So chi sei. Sembri proprio Percy X. Ti avrei raggiunto sulle colline, se non avessi moglie e figli. Mi tocca restare dove sono per impedire che si scannino fra loro. — Rise ironico.

— Andate per caso dalle parti della piantagione di Gus Swenesgard? — chiese Paul.

— Passo lungo il suo confine nord — rispose il conducente.

— Bene! — esclamò Percy X, con sollievo. — Da lì potrò tornare dai miei uomini. — Rivolto a Paul, aggiunse: — Verrete con me?

Guardando Joan, Rivers rispose: — No. A quel punto Ed e io vi lasceremo.

— Volete portare Joan con voi?

— Sarà più al sicuro, con me.

— Di questi tempi, nessuno è al sicuro — ribatté Percy.

— Volete che rimanga come l'ha ridotta Balkani?

Dopo una breve pausa, Percy disse: — Tenetemi informato sulle sue condizioni attraverso il vostro amplificatore.

In quel momento si udì il fruscio di un'aerauto che li sovrastava, poi di un'altra e di un'altra ancora. "Dove sono finiti?", chiese una voce che proveniva dalla radio sintonizzata sulla lunghezza d'onda della polizia. "Sono scomparsi."

Rassegnata, un'altra voce gracchiò: "I negri dispongono di armi nuove. Ne ho senfito parlare alla televisione. Possono rendersi invisibili".

Paul Rivers non poté frenare un sorriso, quando udì uno della polizia borbottare fra i denti: "Quando si cercano sul serio, i negri non si trovano mai".

 

10

 

L'arrampicata era stata lunga, fino alla caverna scavata nella montagna dove era stata nascosta la più misteriosa delle armi scoperte da Gus Swenesgard, di cui si erano impadroniti i partigiani negri. Erano tutti spossati.

Seduto all'ombra, Percy X studiava il manuale che accompagnava quel dispositivo dall'aspetto banale, simile a un oscillatore ad alta frequenza. — Guardate questo — disse ai suoi uomini, accovacciati poco lontano e intenti a fissare il vuoto.

I partigiani si passarono l'opuscolo di mano in mano, poi uno disse: — Il dottor Balkani.

Accostatosi a passo lento, Lincoln si lasciò cadere accanto a Percy. Mezzo sdraiato, prese a sfogliare a sua volta il manuale. — Non volevo usare questo aggeggio — osservò. — Deve esserci un buon motivo, se non lo hanno utilizzato durante la guerra.

Con aria pensosa, Percy obiettò: — Forse sembrava buono ai baciavermi. — Intanto si terse il sudore dalla fronte con la manica.

— Può darsi, può darsi — ammise Lincoln, togliendosi gli sgangherati occhiali cerchiati d'osso con i quali gesticolò poi nervosamente. — Potrei essere d'accordo per gli altri dispositivi che facevano parte del bottino. Sono risultati utili, però fanno paura.

— Fanno paura? — ripeté Percy, seccamente.

— Sono stati studiati per creare illusioni — spiegò Lincoln, con la fronte aggrottata. — Però c'è qualcosa che non quadra. Hai mai visto un'illusione che lascia impronte di passi? O che uccide un uomo?

— No, e non mi capiterà mai — disse Percy.

— Lo dici tu. Ti assicuro che queste armi hanno qualcosa di molto strano. Basta utilizzarne una anche una volta sola, e non si è più quelli di prima. Si comincia a chiedersi che cosa sia vero e che cosa non lo sia, o addirittura se esiste qualcosa di vero.

— Però mi pare che le abbiate utilizzate — ribatté Percy.

— Tutte meno questa, che è ancora la più sconcertante. Il manuale dice che non è mai stata sperimentata, che non "poté" essere sperimentata. Nessuno, neppure il tipo che l'ha inventata sa esattamente che effetto produca, però a giudicare dalle altre...

— Se dovrò usarla, la userò — dichiarò Percy. — Non esistono armi troppo potenti. — "Anche se si tratta di invenzioni di Balkani", aggiunse fra sé.

 

Al bonario e rammollito dottor Burns occorse un certo tempo per scoprire con i raggi X il dispositivo di morte istantanea che i tecnici dei G.V. avevano infilato sotto la pelle del braccio di Gus Swenesgard. Appena l'ebbe localizzato, però, gli fu facile rimuoverlo.

— Mi sono proprio tolto un grosso peso dalle spalle — disse Gus, accendendo un sigaro di marca scadente, mentre scrutava con interesse la fasciatura organica che aveva al braccio. — Siete certo che non ci sia un altro di questi giocattoli, in qualche altra parte del mio corpo? — chiese poi.

— È da escludere — dichiarò il dottor Burns, riponendo gli strumenti nello sterilizzatore sotto cui accese la fiammella.

Gus aspirò una profonda boccata di fumo. Cercava inconsapevolmente di soffocare l'odore di disinfettante che impregnava l'atmosfera nella sala operatoria del dottor Burns.

Poi disse, pensoso: — Forse non lo sapete, dottore, ma avete davanti a voi un astro nascente del firmamento politico.

— Mmm — fece il dottor Burns.

— Ma certo. — Liberato del dispositivo di morte istantanea comandato a distanza, Gus si sentiva in vena di confidenze. — Ve lo assicuro. Quel verme del governatore si è immerso nella lettura di un libro e non fa caso a quanto succede nel governatorato. Sapete chi dirige tutto, qui attorno?

— Chi? — chiese il medico, tanto per accontentarlo.

— Io — disse Gus, in tono compiaciuto. — Proprio io. E ho grandi piani. Che cosa direste se vi raccontassi che non ho intenzione di disperdere i negri? Se vi raccontassi che intendo venire a patti con loro?

— Direi che vi manca una rotella — rispose il dottor Burns laconico.

— Sentite un po'. Quei negri hanno messo le mani su certi dispositivi che mi sono stati rubati, strani aggeggi residuati di guerra, e se ne sono serviti in qualche modo. Però, anche se sono troppo ignoranti per saperlo, con materiale di quel genere forse potrebbero dare molto filo da torcere ai G.V. Potrebbero anche riprendersi la Terra, e l'uomo che disporrà di quelle armi sarà il padrone del pianeta.

— Non montatevi la testa — ammonì il medico.

— Chi non risica non rosica — ribatté Gus, dandogli una manata sulla schiena.

Mezz'ora dopo, sedeva su una sedia a dondolo nella capanna di uno dei suoi schiavi più fidati.

Teneva in mano una radio a transistor che trasmetteva musica a tutto volume.

— Non badare alla musica — disse. — Serve per coprire le nostre voci, nel caso che questa tua bicocca sia sotto controllo, oppure che nelle vicinanze sia appostato qualcuno con un microfono a lunga portata.

— Che cosa mi volete dire di così segreto, signor Swenesgard? — chiese Little Joe. Mingherlino, Little Joe era un fedele schiavo negro che "sapeva stare al suo posto".

— Voglio che tu vada sulle colline — disse Gus, posandogli una mano sulla spalla con gesto paterno.

— Io? In mezzo a quei selvaggi?

— Voglio che tu parli con chiunque abbia sostituito Percy X, ora che lui è prigioniero dei G.V. Devi dire che voglio venire a patti, spiegargli che ho intenzione di unirmi a loro... Ovviamente io prenderò il comando, ma loro potrebbero formare una specie di consiglio per spalleggiarmi. Digli anche che con le armi di cui dispongono, io penso, anzi sono sicuro, di poter sgominare i G. V.

— Devo proprio andarci? — La voce di Little Joe tremava.

— Sì — disse Gus in tono enfatico.

— Okay, signor Swenesgard, lo farò. Ci andrò la settimana prossima.

— No. Non la settimana prossima.

— Domani?

— Oggi, Little Joe. Subito.

— D'accordo, se lo dite voi. — Little Joe annuì con aria depressa.

 

Nel soggiorno dell'appartamento occupato dal dottor Balkani nei pressi di Oslo, il maggiore Ringdahl camminava su e giù impaziente. — In passato avete lavorato per conto delle Nazioni Unite su un certo dispositivo elettronico che suscita distorsioni mentali, vero? — chiese.

— Un'arma eccellente — ammise Balkani. — Troppo efficace, anzi, tanto che non vollero usarla.

— A quanto pare, poco prima che catturassimo Percy X, i suoi avevano messo le mani su quest'arma infernale, che era stata sepolta nel Tennessee, vicino alle Smoky Mountains. Il Grande Gruppo Comune ganimediano è preoccupato. Che tipo di effetti produce, l'arma?

— Un effetto strano. Chi viene colpito continua a vedere la realtà, però gli appare come un'allucinazione, una visione sua personale che non ha riscontro nel comune mondo delle immagini. Ne consegue un rapidissimo incapsulamento. La persona sotto l'effetto del dispositivo non è isolata nel vero senso della parola. È parte del "mondo vero", però non riesce a trovarvi né capo né coda. L'aspetto entusiasmante del meccanismo consiste nel fatto che attacca soltanto la parte percettiva della struttura del sistema nervoso. Le conoscenze e il funzionamento del lobo frontale non subiscono menomazioni. La vittima è ancora in grado di "pensare" con chiarezza, ma i dati ricevuti dai centri nervosi superiori non deteriorati non possono essere approfonditi né tramutati in... — Balkani continuò a divagare.

Finalmente senza fiato, s'interruppe per prendere una compressa dalla scatoletta d'argento che teneva sempre nella tasca della giacca.

— Secondo voi — disse Ringdahl — chi fa uso dell'arma ne è vittima quanto...

— La proprietà principale dell'arma — spiegò Balkani — non consiste nelle sue capacità di distruzione, bensì nel fatto che il dispositivo protegge chi la porta. Ma anche l'operatore rimane disorientato quanto il bersaglio. Il funzionamento si basa sul punto di convergenza al quale sono collegate tutte le menti in un dato campo di sincronicità, quindi la macchina influirebbe probabilmente su ogni essere pensante del pianeta, e quasi certamente anche sugli abitanti di Ganimede, visto che dispongono di rappresentanti telepatici sulla Terra.

— I negri potrebbero anche non tenere conto del lato suicida di quest'arma infernale — osservò il maggiore.

Sorridendo, Balkani scelse a caso un'altra pillola dalla scatolina intarsiata.

 

La neve copriva ancora il terreno.

Era sera e la foschia ammantava le pendici dei monti.

Tutto taceva. Lo stridìo dei grilli era assorbito dalle rocce circostanti. Un corvo si posò su un ramo avvizzito, scrutando fra i lunghi steli d'erba e le foglie. La brezza gli scompigliava le penne, ma l'uccello rimaneva silenzioso e attento, mentre la luce del giorno andava affievolendosi.

Qualcosa scorreva fra l'erba, qualcosa cui la penombra dava un colore scuro. Scorreva lentamente, penetrando nella polvere. Era un rivolo di sangue.

Mezzo nascosto fra le erbacce, in attesa che la mattina dopo qualcuno lo trovasse, un uomo giaceva riverso, morto. Un negro mingherlino e nudo, steso a faccia in giù, con gambe e braccia divaricate. Little Joe.

Inciso con un raggio laser sulle carni ustionate, coperte di sangue rappreso, spiccava un messaggio per Gus Swenesgard:

 

NON ABBIAMO BISOGNO DI TE,

UOMO BIANCO.

 

11

 

Meccanicamente, la torretta di avvistamento disse: — Partigiani negri avanzano attraverso la foresta di pini, reticolo ventisette barra trentanove. Sembrano sette. Confermo, sette.

All'interno del mezzo in testa a una formazione di dieci cacciabombardieri, Gus parlò nel microfono: — Restare a bassa quota, fuori linea di tiro.

Dagli altri velivoli giunse conferma.

"Ora che non c'è più Percy X a tenerli svegli, finiranno per diventare sbadati", pensò Gus. "Che sciocchezza, venire all'aperto!"

— Circondateli! — ordinò nel microfono. — Voglio che vi sparpagliate. Avvertitemi appena sarete in posizione. Assicuratevi di tenervi a livello delle cime degli alberi e fate in modo di restare coperti.

"Dopo tutto", si disse, "hanno loro quelle armi."

I dieci cacciabombardieri si separarono, volando ognuno in direzione diversa, mentre Gus portava il suo a librarsi sull'altro lato della cresta, rispetto al punto in cui si trovavano i partigiani. "Ho dalla mia il fattore sorpresa", pensò. "Non faticherò a sconfiggerli. La farò pagare a quelle canaglie per quello che hanno fatto a Little Joe."

Il fruscio della colonna d'aria fra le griglie del velivolo risultava così attutito che Gus poteva sentire il richiamo degli uccelli nella foresta che si stendeva sotto di lui. Sperava che i negri non disponessero dei rilevatori necessari per avvertire quel debole fruscio, per distinguerlo dal vento che spira normalmente di pomeriggio nelle zone montane. Era improbabile che ne fossero in possesso.

L'aerauto era sul pilota automatico. Non gli restava altro da fare che appoggiarsi allo schienale e prendere il sole, mentre fumava e sognava a occhi aperti. "In un modo o nell'altro", pensò, "Gus Swenesgard salirà alle alte vette, dico alte." Il solo fatto di riuscire ad annientare i partigiani negri, impresa in cui gli stessi G.V. avevano fallito, sarebbe bastato a fare di lui il candidato più plausibile alla carica di governatore del Tennessee. O forse qualcosa di più. Perché non capo Bav di tutto il continente nordamericano?

Prese a stendere mentalmente l'allocuzione che avrebbe presentato a Mekkis, appena fosse tornata la pace fra i partigiani negri.

Rivolto a un immaginario pubblico di G.V., pensò: "Io appartengo al popolo e in me l'uomo della strada vedrà se stesso, s'immedesimerà con i miei scopi. La popolazione diventerà più pacifica, vedendo uno come loro arrivare alla cima...".

Non suonava alla perfezione, però il concetto era quello, e a Gus il tempo non mancava. I partigiani negri erano ancora vivi e pieni di energia. Si trattava naturalmente di una situazione temporanea, ma occorreva prenderla in considerazione.

In quel momento, i segnali che Gus aveva atteso presero ad arrivare, trasmessi dagli altri cacciabombardieri. Appena venne comunicato che tutti occupavano la posizione prestabilita, lui disse nel microfono: — Okay. Dategliele! — Ordinò al proprio mezzo di salire oltre la sommità della cresta per poter vedere l'attacco. Non aveva la minima intenzione di rischiare la pelle prendendovi parte. Mentre superava la cresta, vide che gli altri cacciabombardieri arrivavano veloci da ogni direzione, convergendo su un punto distante un paio di chilometri. Attese impaziente la deflagrazione delle bombe, ma non ci fu.

— Cosa succede? — chiese nel microfono.

— Sono spariti — rispose la voce stridula di un mostriccio.

— Come sarebbe a dire? — Gus lanciò un'occhiata rapida all'apparecchiatura di rilevamento automatico. — Io continuo a vederli. — In quel momento, nella sua mente cominciò a insinuarsi una bizzarra sensazione. Appena fu dileguata, guardò di nuovo l'apparecchiatura: non c'era più traccia dei partigiani negri. — Cosa succede? — ripeté, con un'inflessione di panico nella voce.

Mentre teneva lo sguardo fisso sui mezzi che ora volavano senza meta in cerchio, notò un altro particolare, un particolare ancora più grave. Un occhio, un immenso occhio dallo sguardo fisso spiccava sul fianco della montagna. Era puntato su di lui. Poi la montagna prese a muoversi. Come una cosa viva sollevò il braccio, uno pseudopodo, e con un solo gesto, simile a una frustata, abbatté due aerei da bombardamento.

Virando violentemente per lanciare il suo mezzo oltre la vetta dell'altura, per un attimo Gus ebbe la netta sensazione che qualcuno sedesse accanto a lui, sul sedile vuoto. Percy X. E rideva.

 

— Sto male — disse l'Oracolo.

— Ti chiamo perché tu mi predica il futuro — protestò Mekkis in tono sprezzante — e mi sai dire soltanto "sto male"?

— Non voglio guardare nel futuro — affermò il mostriccio. — È proprio guardare nel futuro che mi fa stare male.

Neanche Mekkis si sentiva troppo bene. "Forse ho letto troppo", pensò. "Eppure non posso smettere. Una delle fantastiche storie di Balkani contiene la risposta. Più leggo e più me ne convinco. Prendiamo, per esempio, il concetto della consapevolezza selettiva. Potrebbe spiegare molti aspetti paradossali dei rapporti che andiamo ricevendo su illusioni che sembrano realtà. Da una massa di dati sensoriali, la mente sceglie quelli cui prestare attenzione, ai quali reagire, da trattare come 'realtà'. Però, chissà cosa scarta la mente, chissà cosa esiste d'invisibile nel mondo? Forse queste illusioni non sono realmente tali, ma cose vere che vengono di solito filtrate dal ruscello irrompente dei dati sensoriali, per opera del nostro intelletto che esige un mondo logico e concreto. Perché prima non erano in grado di farci soffrire? Perché quello che ignoriamo non può farci soffrire. Essendoci ignoto..."

Il dottor Balkani!

Stupefatto, Mekkis fissò l'uomo dalla lunga barba, dall'espressione penetrante, seduto sulla sedia di fronte a lui, intento a fumare la pipa. Mentre il G.V., governatore del Tennessee, la guardava, la figura sbiadì e scomparve.

Scosso da un tremito che lo faceva oscillare come un pendolo, Mekkis pensò: "Devo continuare. Il tempo stringe".

 

— Avanti, torna in te — ordinò Percy a uno dei suoi uomini, che pareva in preda a una crisi isterica.

— Ti dico che sono ancora invisibile! — urlò l'altro.

— Ho staccato il proiettore un'ora fa — disse Percy, appoggiandosi a un albero con voluta noncuranza. — Non puoi essere invisibile. Ti vedo perfettamente.

— Io, invece, non riesco a vedermi — gridò scovolto il partigiano negro. — Mi metto una mano davanti alla faccia... e non c'è niente!

— Ehi, Lincoln — chiamò Percy, rivolgendosi al suo secondo. — Vedi quest'uomo, vero?

— Certo — rispose Lincoln, scrutando attraverso le lenti incrinate degli occhiali cerchiati d'osso.

— C'è qualcuno qui che non vede quest'uomo? — chiese ancora Percy, rivolto agli altri partigiani seduti o in piedi in un largo semicerchio attorno a lui.

— Lo vediamo benissimo — mormorarono gli uomini.

Percy si girò di nuovo verso l'uomo "invisibile". — Avanti, raccogli il proiettore e muoviamoci.

— No, non toccherò mai più una di quelle cose, per nessuna ragione al mondo.

— Ti rifiuti di ubbidire ai miei ordini? — Percy afferrò il fucile a raggi laser.

— Calma, calma — disse Lincoln, spingendo da parte l'arma con gesto tranquillo. — Lo porterò io, il suo proiettore.

Dopo un attimo d'esitazione, Percy alzò le spalle, lasciando che Lincoln facesse a modo suo.

Al calare della notte raggiunsero una delle loro trincee di prima linea, e quando venne fatto l'appello, l'uomo che si credeva invisibile non c'era più.

— È sparito davvero — disse uno dei negri.

— No — lo corresse Lincoln. — Si è semplicemente allontanato dal gruppo, per avviarsi verso la piantagione di Gus Swenesgard.

— Cosa? — urlò Percy. — E tu l'hai lasciato andare? Se sapevi che era un disertore, perché non gli hai sparato addosso?

— Non puoi sparare a tutti — disse Lincoln, scuro in faccia. — Da quando ti sei messo a usare questi proiettori che creano illusioni, parecchi uomini hanno perso la bussola. Se non la smetterai, succederà ad altri.

— Non posso smettere — dichiarò Percy. — Con queste armi sono finalmente in grado di suonarle a quegli schifosi Bav. Posso veramente fargli danno. Senza quelle armi, sarebbe soltanto questione di tempo prima della nostra sconfitta definitiva.

— Allora — disse Lincoln con aria stoica — farai bene a sfruttarle al massimo e subito, finché ti resta ancora qualche uomo.

 

All'inizio i disertori arrivarono alla piantagione di Gus alla spicciolata, uno o due per volta, poi in gruppi più numerosi. Sospettando un tranello, Gus fece fucilare i primi; ma in seguito, cominciando a capire, li ammassò in un campo di prigionia allestito alla svelta, per interrogarli poi personalmente nell'atrio del suo albergo.

Quasi subito emerse con chiarezza un particolare. Chi più, chi meno, ogni disertore era in preda a turbe mentali. Qualcuno al punto da presentare un quadro completo di schizofrenia paranoide, soggetta ad allucinazioni.

La fissazione più frequente era la convinzione che Percy X non fosse stato catturato e li capeggiasse ancora nelle zone montane. Oppure che fosse miracolosamente fuggito, per tornare fra loro. Per non avere dubbi, Gus telefonò a Oslo e parlò direttamente col dottor Balkani, il quale garantì che sia Percy X sia Joan Hiashi erano al sicuro, sotto chiave.

— Pii desideri, allora — borbottò Gus, deponendo il ricevitore.

Le altre fissazioni erano fra le più incoerenti e diverse. Ammesso che esistesse un caso "tipo", da additare come esempio, si sarebbe potuto scegliere Jeff Berner, che aveva avuto il grado di capitano fra la feccia di cui era composto l'esercito di Percy X.

Quando Jeff venne condotto nell'atrio per essere interrogato, a Gus non sarebbe servito saper leggere il pensiero per capire immediatamente che si trovava di fronte a un negro terrorizzato.

— Sei Jeff Berner? — chiese, accendendo un sigaro e sistemandosi comodamente nella poltrona troppo imbottita. Naturalmente, Jeff restò in piedi.

Il disgraziato annuì.

— Sì signore — corresse Gus, severo. "Non si ottiene niente con questi selvaggi", pensò, "se non li si costringe a mostrarsi rispettosi."

— Sì, signore — ripeté Jeff.

— Adesso dimmi: perché hai lasciato i partigiani negri?

L'ex partigiano mosse nervosamente i piedi, poi rispose: — Per via dei proiettori mentali. Mi hanno fatto qualcosa al cervello.

— Che cosa? — Gus si sforzò di parlare con bontà e comprensione. Secondo lui, il modo migliore per ottenere qualcosa dai negri era quello di trattarli come semplici ragazzini. Del resto, cos'altro erano? "Mi devono considerare una specie di padre", pensò.

— Tante cose. Si fa funzionare la macchina, s'immagina qualcosa, e quello che si era immaginato sembra diventare vero. Soltanto che delle volte, quando si stacca la macchina, l'illusione non scompare. Si continua a vederla, anche per giorni e giorni.

— Nel tuo caso, cosa immaginavi? — Questa era la parte dell'interrogatorio che aveva finito per procurare a Gus il divertimento maggiore, poiché ogni racconto era più strano del precedente.

— Ecco... signore — attaccò il negro, incerto. — È cominciato quando io e altri due compagni abbiamo fatto un'incursione per procurarci cibo e rifornimenti, in una casa poco lontana dalla vostra piantagione. Eravamo in un pasticcio, perché il contadino, sua moglie e i figli ci tenevano a bada con i fucili laser, e noi eravamo convinti che le vostre truppe ci sarebbero presto state addosso. Allora decisi di raccogliere rinforzi per mezzo della macchina delle illusioni. Qualche uomo in più, giusto per spaventare il contadino. E... e quella macchina scodellò ventiquattro uomini che si batterono tutti come vecchi soldati, aiutandoci a portare sui monti il bottino. Fin qui, tutto bene, anche se non capisco come possa un'illusione portare sulle spalle una vera cassa piena di vere scatolette di cibo conservato. Ma il guaio cominciò quando smisi di far funzionare la macchina, e i ventiquattro uomini non sparirono. Rimasero con me sulle colline, e mangiavano come buoi, signore, proprio come buoi. Però a me non importava, e uno di quei tali mi era perfino diventato simpatico. Un vero amico. Chiacchieravamo insieme per ore, e sapeva tante cose. Non avevo mai conosciuto un tipo tanto in gamba in tutta la mia vita. Si chiamava Mike Monk, era nato e vissuto a New York. Diceva di essere andato a raggiungere Percy X perché non riusciva a trovare un lavoro e, anche se in fondo era uno scherzo, c'era qualcosa di vero in questo. Tanti uomini si erano uniti a Percy X perché nessun altro li voleva. E un giorno mi salvò la vita, abbattendo un dardo omotropico che aveva tutta l'aria di essere destinato a me. Così smisi di pensare che Mike fosse un'illusione e cominciai a dare per scontato che si trattasse di una persona vera. Be', una sera stavamo chiacchierando in trincea quando, all'improvviso, mi resi conto che gli altri ventitré uomini erano spariti. "Ehi, Mike", dissi, "cosa succede?" E lui: "niente, amico". Io però mi accorsi per caso che non aveva più i piedi. "Ehi, Mike" dissi, "cosa ti è successo ai piedi?". E lui: "I miei piedi stanno benone". A quel punto notai che le sue gambe èrano diventate trasparenti. "Ehi", dissi, "le tue gambe sono trasparenti. Ci vedo attraverso." E lui: "Quanto parli!" Allora chiesi: "Da dove vieni veramente?". E lui "Te l'ho detto, sono un vagabondo di New York". Io, però, mi accorsi che le gambe erano sparite e che anche il corpo era trasparente, per cui dissi: "Ehi, dove vai?". E lui: "In nessun posto. Resto con te". La sua voce stava diventando debole, lontana, così urlai: "Ehi, dove sei?". Mi rispose con una voce tanto debole che quasi non la sentivo. "Dove sono sempre stato e dove sempre sarò, accanto a te". Poi sparì, e non lo vidi mai più.

— E allora tu hai disertato — concluse Gus Swenesgard.

— No, non allora. Ho disertato dopo avere usato di nuovo la macchina delle illusioni.

— Perché l'hai usata una seconda volta? — chiese Gus, affascinato.

— Voi perché la usereste, se foste nei miei panni, signor Swenesgard? Mi sono fatto una bella ragazza.

— Infine, quando la ragazza ha cominciato a svanire...

— No, signore, prima che cominciasse a svanire. Posso assicurarvi che era la donna più brontolona e rompiscatole che io abbia mai conosciuto. Non sono un vigliacco, signore, ma quella ragazza è riuscita a farmi scappare dai partigiani negri.

 

In una caverna in cima alle montagne, un uomo sdraiato in un sacco a pelo si mosse e si alzò a sedere.

— Lincoln — chiamò Percy con voce aspra, allungando una mano per scuotere il compagno che dormiva.

— Eh? — borbottò Lincoln.

— Ho deciso — disse Percy. — Siamo rimasti anche troppo tempo sulla difensiva. Col materiale di cui disponiamo abbiamo buone probabilità di successo, se daremo inizio all'offensiva. Potremo scendere da questi monti ed eliminare qualche Bav.

— Pensavo la stessa cosa — disse Lincoln, assonnato. — È un delitto non usare queste armi per un'operazione in grande stile.

— Trasmetti l'ordine. Tutte le nuove armi devono essere utilizzate, salvo quella nella caverna sulla vetta. Perdio, devo confessare che quell'aggeggio spaventa anche me. Darò un giorno di tempo per i preparativi, poi attaccheremo Gus Swenesgard con tutte le nostre forze. Se riusciremo a occupare la sua piantagione, potremo disporre di tutto il materiale da prima linea che gli hanno dato i G.V. E molti schiavi si schiereranno con noi, appena vedranno che stiamo vincendo. Con un po' di fortuna, forse potremo anche riuscire a schiacciare quel verme di Mekkis. Da quanto ho saputo attraverso la rete d'informazione, non fa che starsene sdraiato a leggere, lasciando Swenesgard a dirigere il governatorato del Tennessee. Appena avremo occupato la piantagione, dovremo andare avanti a ventaglio, in modo da non trovarci tutti riuniti in un punto, se le truppe dei G.V. dovessero lanciare missili nucleari. Tutto dipende dalla rapidità e... dalle illusioni — concluse Percy, quasi più per se stesso che per gli altri.

 

— Sta per arrivare la ragazza-che-viene-dal-nulla — piagnucolò l'Oracolo.

— Non strillare in quel modo! — esclamò Mekkis, in tono secco. — Non vedi che sto tentando di leggere? — "Tutto è illusione", pensò. "Ognuno è una cella senza finestre, senza un contatto col mondo circostante. Balkani lo dimostra. E allora, perché io dovrei preoccuparmi di fantasmi senza significato, come la ragazza-che-viene-dal-nulla, i partigiani negri e il Grande Gruppo Comune? Il mondo è un quadro, e se io volessi cambiarlo mi basterebbe immaginarlo diverso. Per esempio, se lo desiderassi, potrei immaginare un terremoto e..."

La stanza fu scossa da un tremito, un'ondata che investì Mekkis, passò oltre e lasciò una larga crepa nel pavimento.

Mekkis la guardò soddisfatto, mentre l'Oracolo blaterava isterico, pronunciando parole senza senso.

 

Poco prima del tramonto, la sera in cui Percy X aveva deciso di sferrare l'attacco, un disertore informò Gus dell'imminente offensiva. Swenesgard si recò all'ufficio di Mekkis e chiese di essere ricevuto dal governatore.

— Il signor Mekkis ha lasciato detto che non vuole essere disturbato. Per nessun motivo — disse il segretario.

— Stanotte i partigiani negri attaccheranno in forze — disse Gus. Sebbene la stanza fosse dotata di impianto per il condizionamento d'aria, sudava visibilmente.

— Tutto qui? — fece il segretario, sprezzante. — I partigiani negri attaccano sempre. Potete senz'altro provvedere da solo.

Gus aprì e chiuse la bocca. Una vampata di rossore gli salì alla faccia. Poi girò sui tacchi senza ribattere e uscì a lunghi passi. Appena fu risalito sull'aerauto afferrò il microfono, se lo portò alle labbra e cominciò a impartire ordini.

Entro un'ora, le eclettiche forze di Gus Swenesgard, in cui trovavano posto piccoli lanciamissili nucleari e schiavi negri armati di forconi, si avviarono disordinatamente verso le grandi sagome scure che ora, in quella notte priva di luna, s'intravedevano avanzare minacciose.

Prima dello scontro, furono lanciati i missili nucleari, che però non esplosero e sembrarono essere inghiottiti dall'imponente massa tumultuosa. Poi arrivarono i velivoli da bombardamento, che sparirono a loro volta.

A bordo di un mezzo che si librava alto sulla piantagione, Gus seguiva la scena su una batteria di piccoli monitor montati sul cruscotto: trasmettevano le segnalazioni dalle varie unità operative dell'esercito. Uno schermo in particolare richiamò la sua attenzione: trasmetteva l'immagine di una squadriglia di mezzi pilotati da mostricci, più vicina delle altre al nemico. Davanti agli occhi di Gus, sbucò dall'oscurità un'orda di giganteschi formichieri africani, grossi come dinosauri, con occhi brillanti e cattivi, enormi artigli e orecchie incredibilmente sviluppate. Dotati di lingue lunghissime, se ne servivano a mo' di fruste, spazzando dal cielo i velivoli.

— Dio mio! — gemette Gus, incredulo di fronte al fantastico spettacolo. — No! No! I formichieri no!

 

Nella scia dei formichieri che avanzavano c'era un taxi sgangherato, un'aerauto autonomo che trasportava Percy X e Lincoln Shaw. — Vedi? — urlò Percy. — Scommetto che non se l'aspettavano.

— È pazzesco — disse Licoln, più allibito che entusiasta.

— Cos'altro sapete fare? — chiese il taxi.

— Cosa ne diresti di qualcosa di veramente bello? — propose Percy. — Per esempio un gigantesco uccello di fuoco? O una fenice?

— Okay — disse Lincoln. — Vada per la fenice.

Regolò le leve di comando della macchina sulle sue ginocchia, e si concentrò. In mezzo alle nuvole di polvere sollevate dai formichieri cominciò a prendere forma un'incredibile creatura, la cui apertura d'ali raggiungeva e superava i trecento metri. Sembrava fatta di fiamme, o forse era un fenomeno elettrico, e sulle piume brillavano e ammiccavano tutti i colori dello spettro. Gli occhi erano cavità di un biancoazzurro accecante, simili a un paio di cannelli ossidrici, e l'uccello lasciava nell'aria una scia di scintille come stelle cadenti, mentre precedeva l'aerauto volando lento e maestoso. I due uomini avvertirono l'odore di ozono emanato dal suo fuoco elettrico, e il vento provocato dalle ali faceva oscillare l'aerauto minacciando di rovesciarla. Di tanto in tanto, l'uccello spalancava il becco fiammeggiante per emettere un grido roco.

— Non è meraviglioso? — urlò Percy.

— "De gustibus..." — fece il taxi, filosoficamente.

 

— Carica! — gridò il generale Robert E. Lee galoppando sul terreno di battaglia, a capo di uno squadrone di valchirie a cavallo. Con lunghi capelli biondi che ondeggiavano al vento, le valchirie urlavano imprecazioni antiche, mentre gli zoccoli dei loro cavalli bianchi calpestavano senza pietà mostricci, bianchi e schiavi negri.

Con un possente battere d'ali, arrivò una formazione di vampiri con le zampe ancora intrise di sangue. Portavano le insegne del Circo Volante del barone Manfred von Richthofen. In quel momento passava Sansone dalla lunga chioma, che faceva dondolare in una mano l'osso mascellare di un ornitorinco.

In mezzo al caos giunse all'impazzata un battaglione di giovani esploratrici che spaccavano crani a destra e a sinistra, servendosi di armi rudimentali, mentre un macellaio armato di mannaia faceva a pezzi i nemici. Babbuini dai deretani violacei caricavano alle sue spalle, spingendo carrelli da supermercato su cui erano sistemate mitragliatrici calibro cinquanta. Un gruppo di suonatori di rock-and-roll, guidati da un capellone di nome Gabriel (alla tromba), suonava un jerk,mentre una squadra di chirurghi asportava un'appendice dietro l'altra, compiendo di tanto in tanto anche una lobotomia per evitare che il lavoro diventasse monotono.

Quattro travestiti dalle voci stridule, in abiti di seta, lanciavano con micidiale precisione borsette di lustrini azzurri piene di cemento, mentre uomini delle caverne e pigmei gettavano intorno a sé coriandoli avvelenati.

Un unicorno dal colore del sole nascente sbandierava, infilzati sulla sua protuberanza ossea, sette soldati, come fossero fatture saldate. Una pianta carnivora succhiava, prosciugandoli, un midollo spinale dopo l'altro, con un rumore paragonabile a quello che un ragazzo maleducato fa cercando di succhiare con la cannuccia le ultime gocce di un frappé. Pavoni sadici si aggiravano in mezzo ai feriti solleticando con le penne gli incauti, fino a farli morire. Una coraggiosa squadra di falciatrici automatiche e di lavatrici borbottanti eseguiva una brillante manovra di aggiramento, attaccando dalle retrovie. Ovunque rimbombava un orrendo frastuono prodotto da urla gutturali, risa macabre, muggiti, sibili, stridii, ragli, gemiti sensuali, guaiti, miagolii, cinguettii, belati, ruggiti.

Quando però si sarebbe detto che l'esercito di Gus Swenesgard fosse destinato a essere distrutto fino all'ultimo uomo, le fantastiche orde di Percy X presero a litigare fra loro. Frankenstein aggredì l'uomo-lupo, Godzilla attaccò King-Kong, e i giovani esploratori assalirono criminosamente le giovani esploratrici.

La tigre fu accecata dagli aghi dei folletti calzolai, una piccola festuca venne distrutta dal vile colpo sferrato da un cervo e non ne rimase niente, né antere, né pistillo, né gluma. D'un tratto fu una lotta senza esclusione di colpi, in cui ognuno combatteva per sé.

In un baleno, Percy si rese conto che se avesse indugiato anche solo un secondo di più in mezzo a quella battaglia da incubo, lui e i suoi uomini sarebbero rimasti vittime della loro stessa fantasia. In quel preciso istante, infatti un aspirapolvere carnivoro stava tentando di penetrare nel taxi in cui sedevano lui e Lincoln Shaw.

— Ritirata! — urlò Percy nel microfono. — Torniamo sui monti, prima che sia troppo tardi.

All'alba, sul campo di battaglia era sceso il silenzio.

Una coltre di foschia sovrastava il paesaggio, nascondendo l'incredibile carneficina compiuta nella notte, durante l'orgia di distruzione. Quando il sole si levò più alto in cielo, la nebbia si diradò, trascinando con sé la moltitudine di fantastiche forme che la caligine aveva nascosto. Incredibili cadaveri di elefanti e carri armati in parte distrutti si fusero, divennero diafani, poi trasparenti, quindi scomparvero. Mucchi di corpi, che indossavano uniformi di ogni epoca e di ogni nazione, diventarono indistinti, tremule forme che piano piano formarono un tutto unico con la nebbia. Bombardieri, mostricci, schiavi e partigiani negri, tutto svanì, trasformandosi in una bruma in cui vero e falso si mescolavano e si fondevano, per poi svanire insieme.

A mezzogiorno, la nebbia e tutto il resto erano scomparsi senza lasciare traccia. Sotto i raggi vibranti del sole restarono soltanto le erbacce e gli steli calpestati.

 

12

 

Paul Rivers non si girò a guardare il suo interlocutore. Continuò a fissare dalla finestra della camera d'albergo il misero quartiere di Knoxville, nel Tennessee, che arrostiva nella calura del pomeriggio. Pensava: "Tutto quello che dice è vero, eppure...".

— Ci sono due soluzioni al problema della zona montana — disse il dottor Martin Choates, il superiore di Rivers all'Associazione Mondiale di Psichiatria. — Percy non userà quell'arma infernale e perderà la sua pelle, distruggendo al tempo stesso l'"io" della specie umana, oppure la userà e sarà la fine per tutti noi. Non ve ne rendete conto?

Paul tacque, limitandosi ad annuire. "Già", pensò, "me ne rendo conto, ma non posso accettarlo."

— Dovete quindi capire che non abbiamo scelta — riprese il dottor Choates. — Dobbiamo ucciderlo e bruciare il suo cadavere, in modo da far credere che sia morto eroicamente in battaglia. La nostra organizzazione ha già mosso le prime pedine. Sette alti funzionari Bav si sono uccisi, dietro pressioni ipnotiche esercitate dai loro psichiatri. Altri piani più complessi hanno già preso l'avvio, però ci occorre un martire, ci serve un nuovo Cristo in croce, nella persona di un uomo qualunque, se vogliamo ottenere l'appoggio delle masse. Per voi, la libertà della maggioranza della specie umana non è più importante della vita di un uomo, di un fanatico assassino?

— Perché devo essere io? — chiese Paul.

— Perché Percy X si fida di voi. L'avete salvato quando era in mano a Balkani. Nessun altro è in grado di avvicinarsi a lui senza destare sospetti.

— È questo il punto — disse Paul. — Proprio perché Percy si fida di me, non posso farlo.

— Non gli sarà possibile scandargliarvi telepaticamente. Con l'ipnosi possiamo costruirvi nella mente un quadro che farà da paravento, al quale crederete anche voi fino al momento di agire. Lui non lo saprà mai.

"Io però, lo saprò", pensò Paul. Ad alta voce disse: — Mi serve un po' di tempo per riflettere.

Dopo aver esitato, il dottor Choates accettò. — Sta bene, vi concederemo qualche giorno.

Si salutarono con una stretta di mano. Il dottor Choates uscì, mentre Paul pensava distrattamente: "Di questi tempi, parliamo sempre al plurale. Nessuno dice più io. Tutti rappresentano qualche irresponsabile gruppo senza fisionomia. Nessuno rappresenta più se stesso".

Uscita dalla camera da letto, Joan Hiashi disse: — Voglio delle cose che crescono. — Con un sorriso incerto, aggiunse: — Posso?

— Certo — rispose Paul Rivers, provando un improvviso senso di euforia, una subitanea sensazione di libertà. — Andiamo a comprare un intero giardino.

Nell'atrio incontrarono Ed Newkom, che li fissò e chiese: — Cosa succede?

— Andiamo a fare spese — rispose Paul. Poi voltandosi a guardare, vide che Ed li seguiva con uno sguardo perplesso. Il dottor Rivers, psichiatra, pensava compiaciuto: "Joan dà segni di tornare al mondo delle esperienze comuni. Vuole qualcosa!". Ma Paul, l'uomo Paul, mormorava fra sé: "Stupendo, stupendo", mentre usciva con Joan dall'albergo e alzava lo sguardo verso le bianche nubi gonfie che sovrastavano come divinità il sudicio quartiere popolare.

 

— Joan? — chiese il dottor Balkani.

— Sì, Rudolph — rispose il robot che sostituiva la ragazza. Era sdraiato sul divano da psicanalista nello studio di Balkani. Ora, ogni giornata era simile all'altra: Balkani non rilevava nella sua paziente più progressi di quanti ne notasse nel massiccio busto di bronzo che raffigurava Sigmund Freud. Se non che, a volte, aveva l'impressione che il busto gli sorridesse. Un sorriso che non aveva niente di simpatico.

— C'è qualcosa che desiderate, Joan? — chiese.

— No, Rudolph.

Osservandola, lo psichiatra disse: — Allora dovete essere felice. Lo siete?

— Non lo so, Rudolph.

— Lo siete — affermò lui. Aspirando rapide boccate dalla pipa, camminava su e giù, ma Joan non lo seguiva con gli occhi. Continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. All'improvviso Balkani smise di camminare, andò a sedersi accanto al robot e lo cinse con le braccia.

— Che cosa faresti, se ti baciassi? — chiese. Non ottenendo risposta, ordinò seccamente: — Abbracciami. — Il robot ubbidì, e lui lo baciò a lungo sulla bocca, ma poi, non ricavandone alcun piacere, si alzò esclamando:

— Molto noioso.

— Sì, Rudolph.

— Spogliati.

Il robot si svestì con gesti rapidi, senza ricorrere a movimenti inutili, e Balkani fece altrettanto. Rischiò di sbattere la faccia sul pavimento quando rimase con un piede impigliato in una gamba dei calzoni.

— Bene, ora baciami di nuovo — disse. Si baciarono.

Trascorsi pochi secondi, Balkani mormorò: — Continua a essere una cosa noiosa. — Con gesto brusco rovesciò Joan sul divano, poi la baciò ancora, ma ancora senza provare emozione. Si liberò delle braccia del robot e andò a sedersi ai piedi del divano, voltando la schiena all'automa-ragazza. Si sentiva vecchio. "Perché l'amo tanto?", si chiese. "Non ho mai provato tanto amore per nessuno." Alzatosi, frugò fra gli abiti finché ebbe trovato la scatolina portapillole, e ne rovesciò il contenuto. Ingollò tutte le compresse, varie per colore e forma, senza aiutarsi neppure con un sorso d'acqua. — Vedi? — disse al robot. — Non mi importa di vivere o morire. Neanche a te, vero?

— Sì, Rudolph. — Come sempre, Joan aveva parlato con voce monotona, senza espressione.

— Scommetto che esiste ancora un'emozione che puoi sentire. La paura. — Barcollando, Balkani si accostò alla libreria e afferrò il busto di Freud. Ansimava per lo sforzo. — Sto per ucciderti — annunciò. — Anche questo ti lascia indifferente?

— Sì, Rudolph.

In preda ad angoscia e furore, lo psichiatra sollevò il massiccio busto di bronzo, tenendolo alto sopra la testa, quindi tornò verso il lettino. Joan non batté ciglio, non parve neppure accorgersene. Balkani le abbatté il busto sulla testa, con tutte le sue forze, spaccandole il cranio.

— Volevo soltanto... — cominciò a balbettare, mentre il robot scivolava dal lettino e cadeva in posa scomposta sul pavimento. Poi lui vide che la testa, anziché tessuto organico informe, conteneva un cilindro accartocciato di circuiti microminiaturizzati, elementi solidi di un asse cerebrospinale, condotti per batterie a elio liquido e interruttori omeostatici. Alcune parti del circuito funzionavano ancora, compresa la rete standard di reazione per il circuito principale, che, sebbene pendesse fuori dal cranio su una guancia del robot, continuava a pulsare come una specie di crostaceo privato del cervello, ma ancora soggetto a riflessi. Balkani riconobbe una delle sue creazioni. — Joan... — sussurrò.

— Sì, Rudolph? — rispose debolmente il robot, un attimo prima che l'energia si esaurisse.

 

— Joan? — chiamò Paul Rivers.

Seduta sul letto della camera d'albergo di Knoxville, nella luce rossastra del tramonto, Joan rispose. — Sì, Paul?

— C'è qualcosa che desideri?

— No. — La ragazza guardò la cassetta piena di piante tropicali posata sul davanzale della finestra; poi sorrise, e sorrise anche Paul Rivers.

"Una terapia poco ortodossa", pensò, "ma efficace. Se adesso potesse almeno cominciare a interessarsi non soltanto alle piante, ma anche alla gente, a un mondo in cui la realtà è condivisa da tutti!"

— Vogliono che tu uccida Percy X, vero? — chiese lei. — Ho sentito. Volevo sentire.

— Infatti. — Rivers rispose senza guardarla.

— Lo farai? — Dalla voce di Joan non trapelava emozione.

— Non lo so. — Paul esitò, poi aggiunse: — Secondo te, cosa dovrei fare? — "Una novità", pensò, ironico. "Il medico che chiede consiglio al paziente."

— Quello che vuoi — disse Joan. Si alzò, si accostò alla cassetta fiorita appena acquistata, e dopo essersi inginocchiata, prese a giocherellare, affondando le dita nella terra. — Tutti questi movimenti politici, queste filosofie, questi ideali, queste guerre, non sono che illusioni. Non amareggiare la tua pace interiore. Non esistono bene e male, né vittoria né sconfitta. Si tratta soltanto di individui, ognuno totalmente solo. Impara a vivere solo, osserva il volo di un uccello senza farne partecipe nessuno e senza neppure serbarne il ricordo per parlarne con qualcuno in avvenire. — Voltatasi verso Rivers, Joan continuò con voce bassa, in tono grave: — Lascia che la tua vita continui a essere il segreto che è. Non leggere gli omeogiornali, non guardare il telegiornale...

"Evasione", pensò Paul Rivers, ascoltando quella voce ipnotica. "Devo stare in guardia. È persuasiva, però falsa." — D'accordo — disse, interrompendo il flusso di parole. — Ma cosa ne sarà dei miei pazienti, mentre io me ne sto qui a fissarmi stupidamente il dorso delle mani? Cosa ne sarà delle persone che avrei potuto aiutare?

— Tireranno avanti da sole con le loro follie — disse Joan. — Ma tu, per lo meno, non ne sarai parte.

— Bisogna affrontare la realtà.

— La mia mano è reale. La guerra invece è un sogno.

— A te non importa che tutta la specie umana venga ridotta in schiavitù da creature di un altro pianeta? Non importa se tra non molto saremo tutti morti?

— Avevo comunque previsto di morire, prima o poi. E quando sarò morta, cosa me ne importerà che altri continuino o no a vivere?

Paul Rivers si sentì avvolgere da un'ondata di frustrazione. "È talmente imperturbabile" pensò. "Così sicura, dietro le sue schizofreniche barriere difensive! Che egocentrismo, dietro la facciata della santità! Quanto compiaciuto egotismo!" Osservandosi le mani, vide che teneva i pugni stretti. "Dio mio" pensò, "cosa faccio?" Lei sta indubbiamente riuscendo a fare breccia nelle mie difese, a raggiungere dentro di me repressioni annidate in profondità, che mi accomunano a Balkani". Si accorse che Joan lo guardava attenta, notando la sua frustrazione, la sua ira... La sua paura.

Gli disse: — Tu giudichi importante questa piccola guerra. Per me, invece, è soltanto una scaramuccia priva di valore nel quadro di una lotta ben più vasta.

— Quale?

Silenziosamente, Joan indicò la cassetta fiorita. In mezzo ai fiori, un gruppo di formiche rosse e uno di formiche nere si davano battaglia. Per un momento Paul fissò il tumulto di insetti che si scontravano, poi distolse lo sguardo, incapace di parlare. "Sono io", si chiese, "a vivere di sogni e di illusioni confortanti? Concludendo, sono io, forse, che cerco di evadere dalla realtà?"

Notò che Joan osservava ancora le formiche, ma non aveva l'aria angosciata. La sua faccia impassibile, da Budda placido, era soffusa di un lieve sorriso calmo.

 

Dalle dita di Balkani, seduto davanti alla sua complicata macchina per scrivere azionata da batterie solari, scorrevano fiumi di parole. Due giorni interi senza chiudere occhio, ma che importanza aveva? Le compresse di amfetamina che teneva nella scatoletta d'argento gli avrebbero consentito di continuare finché non avesse concluso.

Nella stanza brillava una sola luce, quella della lampadina nuda che sovrastava la scrivania ingombra di carte. Il resto della camera, compreso l'angolo dove giaceva scomposto il robot, era in ombra. Balkani aveva l'impressione che quell'unica lampada respingesse a forza un'oscurità fitta e densa al punto di essere tangibile.

Aveva chiuso la porta a chiave e mandato via le numerose persone che avevano bussato. Il busto di Freud gli era servito anche a spaccare interfono e videofono.

Ora il bronzeo simbolo paterno giaceva a faccia in giù sul pavimento. La collera era sbollita. Era giunta per il figlio l'ora di creare un universo. Balkani continuò a lavorare febbrilmente, dando vita, sotto forma di libro, a un nuovo universo che avrebbe sostituito quello di Freud e tutti gli altri che lo avevano preceduto. Una generazione giovane avrebbe accolto il libro come la nuova Bibbia, nella rivoluzione che opponeva gioventù e vecchiaia.

Lavorando, Balkani canterellava un motivo, una delle filastrocche pubblicitarie che in gioventù aveva collezionato e studiato. Quante cose gli aveva insegnato la pubblicità televisiva! Al contrario di chi abbassava il volume del televisore al momento della pubblicità, Balkani lo alzava. I programmi offrivano soltanto la moralità borghese, nella migliore delle ipotesi uno squallido prodotto, mentre la pubblicità donava un mondo dove erano in vendita i sogni, dove gioventù e salute arrivavano in scatola, e meravigliosi capelli che ondeggiavano lentamente erano di conforto a pene e sofferenze. I film d'avanguardia! Balkani ne rideva. Neppure il più surrealistico offriva niente di paragonabile alla divina grazia consolatrice della pubblicità televisiva. L'opera dei produttori cinematografici impegnati, dagli scarsi capitali, negli anni fra il 1960 e il 1980 era ormai, per fortuna, dimenticata, mentre i collezionisti erano sempre pronti a sborsare cifre che raggiungevano anche i duecento dollari delle Nazioni Unite per accaparrarsi le copie videoregistrate di erotici shorts televisivi per il lancio di saponi e di birre.

E ora Balkani era pronto per portare a termine il suo capolavoro: Terapia dell'oblio. Perché no? Il caso di Joan Hiashi, l'unico pezzo rimasto nel puzzle cosmico, si era incastrato al suo posto, anche se in modo inatteso. Solo nel suo studio, Balkani rise forte. Com'era diventato semplice, alla fine! Una paradossale storiella comica, il cui punto essenziale consisteva nel fatto che tale punto non esisteva. Che cosa c'era dietro tutto quello?

L'oblio.

Balkani s'interruppe di botto. L'ultima frase battuta sulla tastiera aveva un sapore definitivo. Sì, aveva scritto le parole conclusive del suo opus magnum. Sfilò con cautela il foglio dal rullo e lo aggiunse agli altri, prima d'incartare con cura il dattiloscritto e indirizzarlo al suo editore di New York. Appena il pacco fu messo nel cestino della posta in partenza, il meccanismo automatico lo fece sparire. Fatto.

Stanco, trascinando i piedi, andò all'armadietto dei medicinali. Cominciava ad avvertire l'effetto della mancanza di riposo. Prendendo in mano la siringa, pensò che una dose eccessiva di chinidina avrebbe provocato il necessario arresto cardiaco.

Sedutosi in fondo al divano da psicanalista, si arrotolò la manica e si praticò l'iniezione. Non sentì niente. Il braccio ormai, era insensibile a causa delle numerose punture precedenti.

Sfuggitagli dalle dita improvvisamente intorpidite, la siringa si ruppe cadendo sul pavimento, e Balkani si allungò sul divano con un sospiro.

I suoi subordinati lo temevano a tal punto che soltanto trentasei ore più tardi forzarono la porta e trovarono il suo cadavere.

 

13

 

— Come sarebbe a dire, non sapete dove sia? — chiese il dottor Choates.

— Vuole dire quello che ho detto — ribatté Ed Newkom, alzando le spalle. I due uomini si fissarono per un momento in silenzio. Erano nella piccola stanza d'albergo a Knoxville.

Poi il dottor Choates si scostò. — Avrà lasciato qualche indicazione per contattarlo in caso di necessità.

— No — rispose Ed, asciutto.

— E si è portato via la ragazza, Joan Hiashi?

— Proprio così.

La temperatura nella stanza si era fatta calda. Tolto di tasca un fazzoletto di lino irlandese, il dottor Choates si asciugò il sudore dalla fronte. I raggi del sole che entravano dalla finestra gli facevano socchiudere gli occhi. Si sentiva in collera, irritato. — Devo rintracciarlo — disse. — Devo sapere se ha o non ha intenzione di svolgere la missione che riguarda Percy X. Sono già passati cinque giorni. Può darsi che se ne sia andato. — "Ha disertato", pensò, "o più semplicemente ha tagliato la corda."

— Lo conoscete poco, vero? — chiese Ed Newkom.

— Il guaio è che lo conosco, invece. So come si lascia influenzare dai sentimenti. È estremamente emotivo, quando si tratta dei suoi pazienti. È una sua caratteristica, quella di trattare il paziente quasi come un suo pari. Un pessimo tipo di cura. Costringe il medico a uno sforzo eccessivo. Probabilmente Rivers è sull'orlo di un collasso. — D'un tratto, il dottor Choates non fu più irritato, ma in ansia.

 

In quel momento, Paul Rivers assaporava una calma dello spirito e una pace quali non aveva mai goduto prima. Cominciava a imparare a vivere in ozio. L'Associazione per la Libertà Sessuale non era riuscita a dargli niente di simile. Joan Hiashi, sì. Ora, in quella casetta malandata, composta di un'unica stanza, nella zona boscosa del Tennessee, lontanissima dalla più vicina strada, lei gli stava insegnando a starsene sdraiato al sole come un legume che mette radici.

Erano distesi l'una accanto all'altro sulla sgangherata veranda, e si sfioravano soltanto con la punta delle dita. A un certo punto Paul aveva tentato di baciarla, ma quando lei lo aveva respinto con dolcezza, si era arreso. Adesso, trascorsa più di un'ora in un silenzio torpido, che nessun pensiero animava, Joan si era messa a parlare molto lentamente.

— Non posso più fare l'amore. Mi fa sentire falsa. Non sono né una donna né un uomo, sono entrambi, e né l'una né l'altra cosa. Sono l'intero universo e soltanto un unico, minuscolo occhio che osserva. Essere uomo o donna equivale a recitare una parte, e io ho smesso di recitare. Però è piacevole toccarmi, non è vero? Piacevole come toccar un cane o un gatto?

— Sì — disse Paul, così piano che la sua risposta quasi non si udì. "È la prima volta", pensò, "che una donna ha saputo lasciarmi stare, senza esigere che le rivolgessi la mia attenzione, che le provassi incessantemente che esiste. In un certo modo è vero", si rese conto, "che per lo più essere uomo o donna equivale a recitare, a svolgere un determinato ruolo che può anche avere poco da spartire con quello che siamo in realtà nel nostro intimo. Quante volte", si chiese, "ho fatto l'amore non perché lo desiderassi, ma perché volevo dimostrare a me stesso, e a qualche povera donna, che ero un vero uomo?" Poi, lanciando un'occhiata all'inespressivo profilo di Joan, pensò ancora: "Lei, però, sembra tanto lontana. Chissà dov'è andata, nelle profondità del suo animo".

— Dove sei, Joan? — le chiese.

— In nessun posto.

— Sei la piccola ragazza-che-viene-dal-nulla, vero?

— Potresti anche definirmi così.

Un uccello, forse un colibrì, attirò l'attenzione di Paul. Cantava, posato su un ramo oltre il cortile infestato di erbacce. Un canto breve sempre uguale. Osservandolo, Paul Rivers avrebbe giurato che l'uccello avesse fatto una pausa e l'avesse guardato, per un attimo, muto e pensoso. L'uomo e il pennuto si fissarono attraverso la tremula calura, poi l'uccello riattaccò bruscamente a cantare. All'improvviso, Paul avvertì il nascere di un'emozione dolorosa. Immagini fantasiose gli danzavano nel cervello, lacrime di origine ignota gli appannavano la vista. Forse un tempo era stato un uccello, forse quel piccolo pennuto aveva riconosciuto in lui un fratello.

L'uccello si avvicinò, continuando a cantare.

"Anch'io ho le ali", pensò Paul, "ma tu non puoi vederle. Sento il vento che vi aleggia sotto, sento l'aria che regge il peso del mio corpo."

— Sapeva che lo ascoltavi — disse Joan. — È tremendamente vanitoso.

— A te succedono spesso cose di questo genere?

— Sì — rispose Joan. — Uccelli e animali sono tutti vanitosi, ma non si pavoneggiano, a meno che non intuiscano che chi li osserva non farà loro del male. Sono meno sapienti ma più saggi degli uomini. Gli animali, soprattutto i gatti, sono grandi filosofi e uomini pii.

— Tu sei una donna pia? — chiese Paul, sorpreso lui stesso dalla domanda.

— Forse. Sarebbe mia ambizione essere una santa o una donna pia. Che cos'altro vale la pena di essere?

Pensoso, Paul disse: — Sei già a metà del cammino. — Scegliendo le parole con cura, continuò: — Budda e Cristo cominciarono andando nel deserto, verso quella solitudine nella quale tu sembri essere adesso. Ma non vi restarono a lungo. Tornarono, per tentare di fare qualcosa per tutti noi. Forse non ci riuscirono, ma per lo meno tentarono. — Si alzò, barcollò un momento, poi si stiracchiò e provò un senso di benessere.

— Dove vai? — chiese Joan.

— Torno in città — rispose Paul con espressione ferma. — Ho da fare.

 

Con sua somma sorpresa, dopo la Grande Battaglia Gus Swenesgard si ritrovò vivo. Essendo vivo, poteva permettersi il lusso di ammirare il nemico.

— Nella zona montana abbiamo alcuni negri in gamba — disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare, mentre attraversava con passo pesante l'atrio del suo albergo per uscire al sole del mattino. Si fermò a respirare una buona dose d'aria polverosa, greve dell'odore delle erbacce in decomposizione. Si passò una mano sulle guance mal rasate, tossicchiò, sputò, e borbottò fra i denti: — Uno di questi giorni bisogna che la pianti di fumare. — In cuor suo, sapeva che non avrebbe mai avuto la forza di farlo.

Tirò fuori un sigaro e l'accese.

"Così va meglio", pensò vagamente. Aspirare fumo nuovo e fresco serviva ad attutire il sapore del fumo vecchio e stantio. Buttò fuori una boccata e poi scese i gradini con aria decisa, evitando con cura quelli sbrecciati. Si avviò lungo la strada diretto al campo dei prigionieri. Aveva provveduto a recintare numerosi lotti di terreno libero, proprio per fornire alloggio provvisorio ai partigiani negri disertori che affluivano alla piantagione in numero sempre crescente. Dal giorno della battaglia dei fantasmi, il rivoletto dei disertori era diventato un torrente. "Se continueranno a utilizzare la macchina delle illusioni", pensò Gus, "sarò a cavallo."

Arrivato al recinto, si fermò un momento per riflettere. "Non serve", concluse, "lasciare in ozio quei bravi giovanotti negri. Sarà meglio dare l'avvio a qualche opera pubblica. Per prima cosa metterò in funzione una fabbrica di cartelloni. Cartelloni con le scritte 'Offresi lavoro continuativo', 'Tiriamo il carro tutti insieme', e altri dello stesso genere. Poi dovrò impiantare una zecca per pagarli. Credo che al museo ci sia qualche vecchio conio del denaro della confederazione ancora in buono stato, come ai tempi in cui viveva Jeff Davis. Appena avremo coniato il denaro", pensò soddisfatto, "potremo metterci a riorganizzare questo posto. Costruendo strade, riparando aerauto, e formando un governo." Prese a stendere un elenco mentale di tutti i parenti e amici, ai quali si sarebbero logicamente dovute destinare posizioni politiche di primo piano. Ai loro ordini avrebbe messo un vasto, eclettico gruppo di funzionari che, pur avendo compiti non ben definiti, sarebbero stati scelti fra tutte le brave persone del governatorato con le quali lui era in rapporti cordiali. Gus aggiunse tra sé: "Sarà bene che facciano parte del gruppo anche alcuni partigiani negri del tipo adatto, per evitare che gli altri diventino irrequieti".

Vedendo l'allampanato dottor Burns uscire curvo dal campo e passare oltre le sentinelle, chiese: — Come va, dottore?

— Dovreste togliere da qui questa gente — fu la risposta. — Vivono in condizioni tali da favorire malattie.

— Si potrebbe mandarli a combattere. Hanno abbandonato i partigiani, quindi possono battersi contro loro.

— Non hanno lasciato i partigiani — corresse il dottor Burns. — Sono scappati da quelle armi, e non intendono certo trovarsele di fronte in combattimento. Era già abbastanza brutto doverle utilizzare, quindi...

— D'altro canto — lo interruppe Gus — devo assolutamente ripulire la zona montana, una volta per tutte. Non ho rinunciato, e non posso rinunciare.

— Usate i robot.

— Però! Non è una cattiva idea! — "Forse un esercito di robot non si farebbe influenzare da illusioni", pensò. Valeva comunque la pena di tentare. — Una grande offensiva contro i partigiani negri — disse a voce alta — utilizzando soltanto armi autonome e omeostatiche.

— Come ve le procurerete? — chiese il dottor Burns, scettico.

— Dai vermi. Otterrò che Mekkis mi metta a disposizione le migliori, forse roba che noi non abbiamo neppure mai visto. — Gus se ne andò svelto.

— Smettete di leggere — supplicò lugubre l'Oracolo. — Si approssima l'ora della ragazza-che-viene-dal-nulla.

La lingua serpeggiante di Mekkis scattò per premere il pulsante dell'interfono. — Fai passare il Prezzolato — ordinò il governatore al segretario Bav.

Poco dopo la porta si aprì, e apparve un terrestre sorridente e ben vestito, con cravatta a farfalla e tuta di velluto violaceo. — Sono il Prezzolato — disse a Mekkis.

— Lo so. — Mekkis intanto pensava: "Devi essere anche telepatico, altrimenti non avresti imparato a dissociare la mente. Per di più, devi esserti diplomato alla scuola di Balkani".

— Mi pare di avere capito — disse il Prezzolato — che state cercando alcuni documenti misteriosi, opera del dottor Rudolph Balkani, distribuiti in forma privata agli studenti del suo corso. Documenti di importanza vitale per capire le teorie di Balkani.

— Li avete voi?

— Per una certa cifra...

— S'intende — disse Mekkis. — Mi è stato riferito che siete stato voi a vendere al mio predecessore, il Maresciallo Koli, la vasta collezione di modellini d'aerei e altri cimeli storici di vario tipo, ora conservati in questi uffici. Se mi fornirete quei documenti, sono disposto a dare in cambio tutta la collezione dei modellini di aerei da caccia della prima guerra mondiale.

— Scherzate? — disse il Prezzolato, con un sorriso divertito.

— Capisco che la mia generosità vi sorprenda — rispose Mekkis — ma noi ganimediani siamo...

— Mi avete frainteso. — Ora il Prezzolato rideva apertamente. — Non accetterei quei modellini neanche se mi pagaste per portarli via. Sono privi di valore.

— Come? Il Maresciallo Koli mi ha detto...

— Il Maresciallo Koli era un collezionista, signor governatore. Io sono un uomo d'affari. Il valore dei documenti che possiedo si aggira intorno ai cento clud ganimediani. Oppure non se ne fa niente.

— Fatemeli vedere — propose Mekkis.

— Soltanto un foglio.

— Potrei farvi arrestare, privandovi dei documenti con la forza — osservò Mekkis.

— Verissimo — ammise il Prezzolato. — Però, in tal caso, non vedreste mai gli altri che potrei procurarvi. Questo è solo uno dei tanti bocconi prelibati.

— D'accordo. Il mio segretario vi preparerà l'assegno per l'ammontare di cento clud. Ora vediamo.

Dopo che il Prezzolato se ne fu andato, Mekkis studiò attentamente il documento. Sembrava autentico: il governatore riconobbe lo stile dell'eccentrico Balkani. Santi Numi, si trattava della chiave di tutto, dell'analisi degli esperimenti di chemioterapia che rendevano possibile la Terapia dell'Oblio. "Bisogna che scopra cos'altro ha da vendere quel giovane terrestre", pensò il governatore ganimediano.

 

Non concesse udienza a Gus Swenesgard, e non si diede neppure la pena di analizzargli la mente quando lo avvertirono della sua presenza. Disse al segretario: — Come ho già ordinato, dategli quello che vuole e lasciatemi in pace.

Gus si allontanò con un permesso di requisizione per tutte le armi ganimediane autonome e omeostatiche d'attacco.

Mekkis lo ignorava, ma anche se lo avesse saputo la cosa gli sarebbe stata indifferente: era arrivato un rapporto che conteneva notizie del tutto inattese.

— Percy X e Joan Hiashi — l'informò il segretario Bav — sono fuggiti dall'istituto del dottor Balkani, in Norvegia. — Dopo una pausa aggiunse: — Il dottor Balkani è morto.

Mekkis rimase a bocca aperta, la lingua paralizzata, la mente vuota. — Come? — finì per chiedere.

— Suicidio, a quanto pare.

— No, non può essere suicidio — mormorò il governatore.

— Mi limito a riferire quanto ho saputo dal Centro del Controllo Culturale — disse il segretario.

— C'è altro?

— Pare quasi sicuro che Percy X sia tornato qui, e al Centro del Controllo Culturale sono tutti in preda al panico, perché questo significa che la resistenza contro il governo dei G.V. potrebbe rivelarsi più ampia e forte di quanto sia stato previsto. Qualcuno è riuscito a introdurre nell'istituto di Balkani due robot che impersonavano Percy X e Joan Hiashi. Evidentemente Balkani non si è accorto del trucco, benché i simulacri derivassero da uno dei suoi progetti. Tutti si stanno chiedendo se Balkani non facesse per caso il doppio gioco, e quindi se in tutti i Bav addestrati da lui non siano state immesse pericolose suggestioni postipnotiche. Alcuni si sono già suicidati, senza motivo apparente.

— Grazie — disse Mekkis, con voce strozzata. Con un colpo di lingua staccò l'interfono, poi sedette a lungo in silenzio, circondato dagli articoli, dalle monografie, dai libri e dagli opuscoli di Balkani. Pensava: "Finché sarò vivo io, sarà vivo anche Balkani, e finirò quanto lui ha cominciato. Ho chiara in mente tutta la sua opera".

Poi chiamò con voce aspra i mostricci, che accorsero in fretta, starnazzando, dalla stanza attigua. Era quasi commovente, vedere la loro felicità nel sentirsi di nuovo notati da lui, nel pensare che avrebbero potuto essergli ancora utili.

— Tecnico elettronico — chiamò Mekkis.

— Si? — rispose con voce stridula il piccolo essere dalle dita sottili e delicate.

— Monta l'amplificatore di pensiero che usiamo per metterci in contatto con il Grande Gruppo Comune per scopi di portata limitata — ordinò Mekkis. Intanto pensava: "Viviamo sempre nella mente gli uni degli altri. Il Grande Gruppo Comune ci costringe a una fusione appiccicaticcia, e praticamente non esistiamo come individui".

"Io, però" pensò ancora, "sono diventato un individuo, mi sono staccato dal Grande Utero e sono nato sotto forma di... di che cosa? Un genuino abitante di Ganimede? Un essere umano? No, un'altra cosa ancora: un estraneo nell'universo, che non appartiene a nessun luogo. Un Balkani! Il Grande Gruppo Comune mi si è rivoltato contro, mi ha buttato a marcire lontano, in un angolo del sistema che nessuno voleva. Ora gliene sono grato. Se non li avessi odiati, non avrei mai capito il significato delle teorie di Rudolph Balkani. Teorie? No, fatti. Verità. Le verità definitive dell'esistenza."

— Quando sarà montato, che cosa avete intenzione di fare con l'amplificatore di pensiero? — chiese l'Oracolo, in tono apprensivo.

— Mi metterò in contatto con Percy X — l'informò Mekkis.

— Allora — disse l'Oracolo, rassegnato — è troppo tardi per tornare indietro. Le grandi tenebre ci sovrastano, e niente può più fermarle.

 

14

 

Quando gli schiavi negri scorsero l'angelo della luce scendere dal cielo, fuggirono terrorizzati, lasciando il magazzino senza sorveglianza.

Trionfante, Percy X esclamò — È servito a far scappare questi topi superstiziosi. Ora alza un muro di fuoco attorno al magazzino, per tenerli lontani mentre faremo il carico delle provviste.

— Bene — rispose Lincoln, manovrando il quadrante del meccanismo e concentrandosi.

In pochi secondi, le fiamme ardevano tanto roventi che i due partigiani negri respiravano a fatica. Il fuoco bruciava senza consumarsi. Lavorando con rapidità ed efficienza, i due uomini riempirono l'aerauto di un carico tale da renderli certi che il veicolo si sarebbe sollevato dal terreno con difficoltà.

Lavorando, Percy cantava una delle cantilene senza parole, ispirate dalle gelide notti vissute fra i monti. "È bello sentire i muscoli che si flettono", pensava. "Meglio lavorare che pensare, quando i pensieri conducono soltanto alla disperazione." Poco dopo, l'aerauto che portava il carico e i due uomini si alzò nel cielo, allontanandosi dal magazzino circondato dalle fiamme, e si diresse inosservata verso la zona montana.

Durante il volo, Percy avvertiva sempre più forte la sensazione di essere un uccello, sempre meno quella di essere un uomo che pilotava un mezzo. Non vedeva più l'interno del veicolo, e neppure il cruscotto. Poi smise anche di sentire il volante e i pedali. Dimenticò, in quell'intervallo di tempo; di essere stato un uomo. Non esisteva più niente, salvo le correnti nell'aria avvertibili per via delle leggere distorsioni ottiche del panorama di colline e alberi. Nuotava nell'aria, ne sentiva la resistenza unicamente come pressione contro una specie di materia plastica trasparente: i vari livelli di altitudine erano strati d'aria che si muovevano gli uni contro gli altri, simili alle diverse parti di un solenne inno corale.

Da lontano, una voce lo chiamò. La riconobbe. Era la voce di Joan Hiashi, e diceva: — Sapeva che lo ascoltavi. È di una vanità tremenda. — Per un attimo, Percy intravide la faccia delia ragazza, che poi mutò. I tratti cambiarono, come modellati nella creta umida dalle dita di uno scultore. Non era più la faccia di Joan, ma quella di Lincoln Shaw, che urlava: — Torna in te! Torna in te! Siamo quasi precipitati.

A poco a poco Percy tornò nel mezzo in cui sedeva. Guardando fuori dal finestrino, vide le alture sfrecciare ai due lati del veicolo. — Credevo di essere un uccello — disse, con voce incerta.

— Lo so — fece Lincoln, riaggiustandosi sul naso, con mani tremanti, gli sgangherati occhiali cerchiati d'osso.

— Ho staccato il proiettore appena in tempo.

— Cantavo per Joan e c'era anche Paul Rivers. Gli sono volato tanto vicino da sfiorargli la faccia.

— Lo credi tu. Non era la faccia di Paul Rivers quella contro cui sei quasi andato a sbattere. Era la parete di una roccia scoscesa.

— Sarà meglio che ti metta tu alla guida, finché non saremo arrivati al campo — disse Percy. Era in un lago di sudore. Aveva le mani scosse da un tremito che i sensibilissimi comandi trasmettevano al veicolo.

— Bene — disse Lincoln, prendendo il suo posto.

Viaggiarono per un poco in silenzio, poi Percy disse: — Adesso le scorte dureranno di più.

— È uno dei vantaggi di avere meno bocche da nutrire — fece Lincoln, in tono caustico.

— Quanti compagni troveremo?

— Non chiedermelo — rispose Lincoln.

— Io, ormai so soltanto... — Percy s'interruppe. Una voce gli era risuonata nella mente. — Sento una voce — disse.

— È il proiettore, non farci caso — rispose Lincoln.

— Siete voi, Percy X? — chiese la voce.

— Sì — rispose il negro. Qualcosa nella voce gli era familiare e così pure nelle vaghe forme che parevano galleggiare dietro la voce. Per un momento, Percy pensò che fosse il dottor Balkani, ma poi capì. Era Mekkis, un Mekkis nel quale si intuivano grandi mutamenti. Un Mekkis assai diverso dall'essere sicuro di sé che Percy si era trovato davanti il giorno della sua cattura. Adesso era percorso da strane vibrazioni dolorose, molto acute.

— Ho una proposta da farvi — disse il governatore, parlando a scatti.

— La conosco già — rispose Percy — e non accetto.

— Ora è diversa — riprese Mekkis. — Prima vi chiedevo di unirvi a me. Adesso vorrei essere io a unirmi a voi contro il nostro comune amico, il Grande Gruppo Comune di Ganimede.

 

Il carcere di Ulvöya era quasi deserto, sotto la cappa grigia del cielo in cui le nuvole veleggiavano lentamente. Le porte delle celle, come quella di accesso all'edificio, erano aperte, e i gabbiani più coraggiosi potevano entrare e vagare in cerca di cibo nei vasti corridoi in penombra. Il puzzo dei loro rifiuti aveva già cominciato a permeare l'aria fredda, e le loro grida echeggiavano per i corridoi, come lontani, disperati richiami di aiuto.

Nell'udirli, i mostricci del Maresciallo Koli si raggrupparono tremanti attorno al padrone. Pensavano che, qualunque cosa fosse accaduta, lui avrebbe saputo come comportarsi. Sdraiato sul divano da psicanalista, nella stanza che un tempo era lo studio del dottor Balkani, Koli non faceva caso a quanto gli accadeva attorno, immerso nel gradevole compito d'interrogare il maggiore Ringdahl, che sedeva abbattuto e raggelato dietro la scrivania di Balkani. L'erogazione dell'elettricità era cessata, sicché erano stati costretti ad arrangiarsi con delle candele. Le correnti d'aria che filtravano da sotto la porta facevano tremolare e danzare le fiammelle, minacciando di spegnerle a ogni momento, e al tempo stesso proiettavano sulle pareti di pietra ombre demoniache in preda a convulsioni.

Facendo un cenno in direzione del robot-Percy X, ora fuori uso, e dei resti di quello che aveva raffigurato Joan Hiashi, per terra in un angolo della stanza, Koli disse: — Sapreste spiegarmi come quei due robot sono capitati qui?

— No — rispose il maggiore. — A meno che il dottor Balkani...

— E il libro del dottore? Dov'è finito?

— Al mattino, un robot-postino raccoglie tutta la corrispondenza in partenza. Se Balkani ha messo il dattiloscritto nel cestino della posta, il robot l'ha automaticamente preso e spedito.

— A chi poteva essere indirizzato?

— Non abbiamo modo di appurarlo — rispose Ringdahl con voce roca.

— Sapete dove l'ha spedito, secondo me? — Preso da furore, Koli s'inarcò, assumendo la forma della lettera "S". — Secondo me, l'ha mandato ai membri di una vasta organizzazione segreta di cui faceva parte, e la cui esistenza finora nessuno conosceva. Maggiore, non credo che vi rendiate conto della gravità del problema. Non si tratta soltanto di mettere fine all'operazione di Ulvöya. Non possiamo più fidarci di nessuno dei Bav addestrati da voi, e fra loro è compresa la maggior parte degli esseri umani che fanno parte della struttura governativa. Senza questo cuscinetto umano fra governo e popolazione, i nostri programmi per il pianeta subiranno una battuta d'arresto. Se ci toccherà governare e amministrare il pianeta da soli, senza l'aiuto di esseri umani, fatiche e spese saranno tali che il gioco non varrà la candela.

— Come potete rimediare? — chiese il maggiore.

— Ritirandoci dal pianeta — rispose Koli in tono deciso. Poi, fatto un cenno ai suoi portatori, rivolse a Ringdahl un saluto ironico e se ne andò, seguito dal disordinato corteo dei suoi mostricci.

Calava la sera, quando uscirono dall'edificio. Mentre procedevano faticosamente verso l'aerauto in attesa, il mostriccio tecnico si accostò al padrone per chiedergli in tono di paura: — Ce ne andiamo davvero? Rinunciamo?

— Neanche per sogno — rispose Koli. — Ci limiteremo a evacuare il pianeta, per permettere che abbia inizio l'Operazione Sterilizzazione. Quando tutte le forze ganimediane saranno al sicuro nello spazio, provvederò io stesso a dirigere la sistematica soppressione di qualsiasi forma di vita sulla Terra. Ti assicuro che si tratterà di un lavoro accurato e definitivo, e quando il pianeta sarà stato sgombrato,torneremo per ripopolare il globo con ragionevoli forme di vita ganimediane.

— La vostra saggezza è profonda — disse il mostriccio tecnico, in tono soddisfatto.

 

— Predicimi qualcosa — ordinò Mekkis.

— Non esiste futuro — rispose l'Oracolo, sospirando.

— Se non funzioni, posso farti sostituire.

— Uccidere, volete dire. Comunque, qualche ora in più o in meno non ha importanza. Siamo già morti, anche se non lo sappiamo.

— Guardia! — chiamò Mekkis all'interfono. Appena fu entrato un militare umano, il governatore indicò l'Oracolo con un cenno della lingua serpeggiante. — Fucilalo — ordinò

— La vostra morte... — cominciò l'Oracolo. Ma non ebbe il tempo di concludere la profezia.

— Porta via la carcassa e buttala da qualche parte. — Impartendo le istruzioni, Mekkis si sentiva abbattuto, e quando la guardia fu uscita fece chiamare il tecnico elettronico. — Aziona l'amplificatore — gli ordinò. — Voglio mettermi in contatto con Percy X.

Mentre il governatore si metteva il casco trasmittente, aiutato dal suo servo-organismo, il tecnico regolava l'amplificatore di pensiero sulle onde encefaliche di Percy X e sull'ubicazione generica del negro.

"Percy" pensò Mekkis intensamente. Si concentrò, tenendo chiusi gli occhi.

In breve giunse la risposta, sotto forma di pensiero. — Sono Percy X. Eccomi.

— In base a tutti i miei studi — trasmise Mekkis — l'arma infernale rappresenta la nostra unica speranza di vittoria. Secondo me dovreste servirvene. — Intanto dissociava e mascherava con cura qualsiasi dubbio potesse nutrire, proiettando unicamente la propria certezza che si trattasse di una questione urgente.

— Lo farò con piacere, se vivrò abbastanza a lungo — rispose Percy.

— Come sarebbe a dire?

— Il vostro amico Gus mi sta attaccando. Mi ha circondato e si avvicina con tutte le vostre armi autonome d'attacco. Credo che questa volta mi abbia chiuso in trappola.

Mekkis si concentrò e, poco dopo vedeva con gli occhi di Percy. Ovunque li volgesse, scorgeva carri armati, robot, truppe e velivoli di ogni misura e forma che avanzavano pronti ad attaccare.

 

Sul campo di battaglia, un esercito di robot e di attrezzature belliche autonome fronteggiava un esercito di incubi. Mentre le due armate si gettavano nella mischia, Percy X e Lincoln, acquattati davanti all'imboccatura di una grotta, manovravano un proiettore d'illusioni. I pochi partigiani negri rimasti, alcuni sparsi nelle vicinanze, alcuni nascosti nella caverna, cercavano di schivare i colpi correndo qua e là. Molti avevano disertato, e ora, osservando la vallata sottostante, Percy vide che altri alzavano le braccia e si arrendevano.

— Anche tu? — chiese, afferrando Lincoln per un braccio. — Anche tu, ti rivolti contro me?

— Perdio! Sono inchiodato qui a manovrare questo maledetto aggeggio che sforna incubi, e tu mi chiedi se mi sono rivoltato contro te?

Parlando sottovoce, in tono minaccioso, Percy disse: — Se lo farai, ti ucciderò.

— Non mi ucciderai, amico — ribatté Lincoln. — Sono l'unico qui che abbia il fegato di dirti la verità su te stesso.

— Non so cosa mi abbia preso — disse Percy. Scosse la testa, cercando di schiarirsi le idee, e intanto pensava: "Sragiono. C'è qualcosa che non va nella mia testa. Probabilmente stanno usando un nuovo tipo di gas nervino". Notando che Lincoln l'osservava preoccupato, gli disse: — Ti leggo nel pensiero. Tu pensi che stia diventando paranoico.

Lincoln distolse gli occhi in silenzio.

— Guarda laggiù — disse allora Percy con voce aspra, indicando la valle dalla quale proveniva il rombo soffocato degli esplosivi ad alta velocità. — È una fissazione credere che mi siano tutti contro? Quei carri armati, quei bombardieri, sono frutto della mia fantasia? Sono frutto della mia fantasia, tutti i partigiani negri che passano al nemico? Ci sono io solo, contro l'universo, e non si tratta di fantasia.

— D'accordo — ammise Lincoln. — Hai ragione, è probabilmente come dici tu.

— Aspetta! — l'interruppe Percy, il cui sguardo reso acuto dall'abitudine alla battaglia, era di nuovo rivolto alla vallata sottostante. — Guarda... Quegli imbecilli laggiù non utilizzano il proiettore d'illusioni, e senza proiettore non hanno alcuna probabilità di vincere.

Sotto gli occhi dei due uomini, la colonna di testa dei carri armati autonomi superò le linee di Percy e prese ad avanzare rombando verso loro. — Attento! — urlò Lincoln. — Ci prendono di mira!

Appena in tempo. I due si tuffarono dentro la grotta, proprio nell'attimo in cui l'imboccatura esplodeva, sollevando un polverone infernale, con frammenti di roccia che volavano via.

— Ci hanno colpiti! — urlò una voce che proveniva dal turbinante nuvolone di polvere.

— Arrendiamoci! — gridò un'altra voce, e altre ancora si unirono urlando: — Arrendiamoci! Siamo perduti.

Poi, in mezzo alla confusione, si alzò la voce di Percy. — Combattete, sporchi vigliacchi! Combattete fino all'ultima goccia di sangue.

Il frenetico stropiccìo di piedi tradì però che erano pochi, ammesso che ci fossero, quelli disposti a ubbidire all'ordine. — Vieni — disse Percy a Lincoln. — Inoltriamoci nella grotta e aspettiamoli là. Non possono entrare con quei maledetti carri armati e quei dannati bombardieri. La caverna è troppo stretta e tortuosa, e io la conosco centimetro per centimetro.

— Il capo sei tu — disse Lincoln, cupo. Si avviarono nei meandri della montagna, effettuando ripetuti controlli con la lampada ad arco portatile, finché Percy esclamò: — Ecco, trinceriamoci qui.

Si accovacciarono l'uno accanto all'altro, dietro una stalagmite liscia, imbracciando i fucili laser. — Cosa non darei per avere quell'arma infernale! — borbottò Percy fra i denti.

— Io preferisco non averla — ribatté Lincoln. — È consolante pensare che anche se noi moriremo, almeno qualcuno sopravviverà.

— Anche se si tratterà soltanto di vermi, di Bav e di traditori? — chiese Percy.

— Anche se si tratterà soltanto di vermi e di Bav e di traditori.

La voce di Lincoln era stanca.

 

Non ebbero modo di continuare la conversazione, perché proprio allora nell'oscurità della grotta si udì l'inconfondibile ronzio di motori elettrici e il calpestìo di pesanti piedi metallici. — Eccoli — disse Percy. Entrambi gli uomini alzarono i fucili a raggi laser.

Percy sparò per primo, mirando verso l'imboccatura della grotta. Il robot esplose, e alla luce delle fiamme che si sprigionarono i due ne intravidero altri che avanzavano in una processione senza fine. Spararono a più riprese, ma i giganti di metallo continuavano ad avanzare, schiacciando, spietati, i rottami dei compagni distrutti. Un fumo acre riempiva l'aria, già pesante per l'odore dei fili elettrici che bruciavano. Respiravano a fatica, Percy e Lincoln, e tossivano affannosamente, gli occhi pieni di lacrime che scorrevano formando solchi nella polvere sulle loro facce. Il calore provocato dai rottami in fiamme rendeva l'atmosfera sempre più irrespirabile, ma i due continuarono a sparare, inzuppati di sudore.

Il primo a restare col fucile scarico fu Percy. Premette invano il grilletto, e una violenta imprecazione gli uscì di bocca. Afferrò bruscamente il fucile di Lincoln, ma anche in quello restavano due sole cariche. — Hai altre armi? — chiese.

— Nessuna in grado di fermarli — rispose Lincoln.

Inermi, rimasero a guardare i giganti di metallo che avanzavano trionfanti.

 

15

 

Nel tardo pomeriggio, l'aerauto su cui viaggiavano Paul Rivers e Joan Hiashi calò dal cielo terso, per posarsi davanti all'ingresso dello squallido albergo di Gus Swenesgard. Aperto lo sportello, Paul scese. Si voltò verso la ragazza e disse: — Stai nascosta. Non voglio che Gus ti veda.

— D'accordo — rispose Joan in tono vago, sdraiandosi sul sedile come una bambina ubbidiente. — Del resto, questo vecchio albergo ammuffito non mi piace. Credo proprio che resterò qui al sole.

— Bene. — Paul Rivers si avviò verso la sgangherata veranda sulla facciata dell'edificio, alla quale si accedeva dalla scala di gradini sbrecciati. "A giudicare dal fumo sulle montagne", pensò "direi che i partigiani negri siano in cattive acque. Se Percy verrà di nuovo catturato vivo, lo scuoieranno e non se ne parlerà più." Tastando con gesto nervoso la pistola a raggi laser che aveva in tasca, pensò: "Se Percy arrivasse qui ancora vivo, non avrei scelta. Dovrei ridurlo in cenere".

Sospirando salì, i gradini sbrecciati per attraversare il loggiato, e intanto pensava: "Starò attaccato a Gus. Se Percy sarà catturato, prima o poi finirà qui, visto che a quanto pare è Gus il vero capo del governatorato".

Mentre entrava nell'atrio, Swenesgard lo chiamò: — Oh, ben tornato! Non capita tutti i giorni che qualcuno venga in questo albergo, dopo esserci già stato. — Insolitamente di buon umore, Gus rise.

— C'è pace, e tranquillità — disse Paul, prudente.

— Oggi proprio no — disse Gus, ridendo e ammiccando. — Tenete — aggiunse, tendendo a Paul un sigaro, un autentico Cuesta Rey arrotolato a mano, anziché la solita marca economica. — Festeggiate con me.

— Che cosa? — chiese Paul, accettando il sigaro, che però non accese.

— La morte di Percy X — annunciò Gus. La faccia del piantatore, sormontata dal cranio mezzo pelato, era soffusa di rossore. — E la r... r... resa dei partigiani negri. — In preda all'eccitazione balbettava nel tentativo di far uscire le parole tutte insieme. — Quello che le forze d'occupazione dei G.V. al gran completo non sono riuscite a fare, l'ha fatto il vecchio Gus Swenesgard, praticamente senza alzare un dito. — Notando il sigaro spento aggiunse: — Se non volete fumare, forse gradirete un bicchierino.

— Volentieri — disse Paul. "Chissà se è veramente riuscito a sgominare i partigiani negri e Percy," si chiese. "E se è così, dove ha messo il cadavere?"

Con un largo sorriso, Gus gli tese un bicchiere di whisky. Rivers si limitò a berne un sorso, continuando a pensare: "Devo stare attento a quello che faccio, con questo imbroglione". A voce alta, chiese: — Come fate a sapere che Percy X è morto?

Candido, Gus ammise: — Be', non ho proprio visto il cadavere, però poco più di un'ora fa la centrale di comando delle armi autonome mi ha informato che è cessata ogni resistenza. Fra i prigionieri Percy non c'è, quindi dev'essere morto.

— Non potrebbe essere fuggito?

Gus scosse la testa, con tanta energia che le guance flaccide ondeggiarono. — N... n... neanche per s... s... sogno! L'avevano intrappolato in una grotta senza uscita. Per di più, ho fatto entrare nella caverna dei robot, per catturarlo ammesso che fosse ancora vivo, oppure per tirare fuori dal mucchio il suo cadavere, se fosse morto. Aspetto il rapporto da un momento all'altro. Intanto, credo che andrò a dare la buona notizia a quel verme. Mekkis. Volete venire anche voi?

— No, grazie. — A Paul non andava l'idea di arrivare entro il raggio del G.V. telepatico.

— Come volete — fece Gus, avviandosi.

 

A bordo del più moderno mezzo del governatorato, Gus si recò al quartier generale. Mentre il veicolo scendeva, non poté fare a meno di notare che il complesso di edifici, generalmente animato, appariva stranamente deserto. Tutto taceva. "Bizzarro", pensò, mentre l'aerauto atterrava.

Quando scorse un Bav umano, lo prese da parte. — Cosa succede? Dove sono tutti gli altri?

— Non lo sapete? — disse il Bav, un lavoratore manuale sorpreso di fronte a tanta ignoranza. — I G.V. se ne vanno.

— Come? Abbandonano il governatorato?

Gus era esterrefatto.

— No. Abbandonano il pianeta.

Prima che Swenesgard fosse in grado di formulare altre domande, l'operaio se n'era andato per riprendere il suo lavoro: riporre in alcune casse i microfilm di documenti ufficiali. Nonostante lo sgomento che provava, Gus si accorse, da uomo pratico e calcolatore, che stando alle apparenze i G.V. si lasciavano alle spalle molte cose preziose. Non soltanto veicoli e attrezzature logistiche, ma perfino armi, modernissime armi ganimediane. "Credo proprio che chiederò al mio amico Mekkis il permesso di alleggerirlo di tutte queste cianfrusaglie, si fa per dire", pensò. "So bene che quando si vuole traslocare dà un gran fastidio vedersi attorno mucchi di roba inutile."

Per la prima volta in tante settimane, si trovò ammesso alla presenza di Mekkis, nel suo alloggio privato. Raggomitolato con aria serena su se stesso, il governatore era intento a leggere un libro terrestre, però all'apparire di Swenesgard alzò lo sguardo, sorridendo.

— Ho sentito dire che ve ne andate — disse Gus, senza perifrasi.

— Davvero? Io no. Non ci penso neanche. — Dal tono altero e distaccato di Mekkis, si intuiva che l'argomento aveva toccato una molla dentro di lui.

— Però quell'operaio mi ha detto...

— Le forze d'occupazione ganimediane al completo, me escluso, si ritirano. Da tempo non mi sono fuso col Grande Gruppo Comune, per cui ne ignoro il motivo. Del resto, mi è indifferente. Vi posso comunque assicurare che io rimango, e con me resta anche il mio stuolo di mostricci personali.

— Non capisco — fece Gus. — Voi ganimediani non agite tutti...

— Ho validi motivi scientifici per agire in modo indipendente. È rimasto incompleto un esperimento iniziato dal grande dottor Rudolph Balkani. Posso chiedervi di giurare che manterrete il segreto?

— Come? Oh, sì, senz'altro! — disse Gus.

Servendosi delle mascelle, Mekkis raccolse un voluminoso dattiloscritto che depose senza sforzo sulla scrivania, davanti a sé. — Mi è stato consegnato dall'editore di Balkani — disse. — È arrivato oggi, per mezzo di persone che lavorano per me. Si tratta dell'unica copia esistente delle conclusioni definitive del dottor Balkani, della sua Terapia dell'Oblio che ora appartiene soltanto a me. Leggo nella vostra mente che la cosa non significa niente per voi, e neppure vi interessa. A voi interessa soltanto il potere. Volete ricoprire la carica che ora ricopro io, vero?

— Ma... — cominciò Gus, imbarazzato.

— Accomodatevi, signor Swenesgard! Fra poco lascerò questo ufficio, nell'eventualità che alcuni dei miei cosiddetti colleghi ganimediani vengano a cercarmi. — Con un lieve accenno di ironia sprezzante, Mekkis concluse: — Questo posto è tutto vostro, signor Swenesgard.

 

— Eccolo — disse Paul Rivers a Joan Hiashi, e la ragazza si acquattò di nuovo sul sedile anteriore dell'aerauto, mentre il suo compagno scendeva. Gus comparve nei raggi obliqui del sole calante. Camminava con passo strascicato, all'apparenza da ubriaco. Paul gli andò incontro, pensando che il piantatore avesse già cominciato a festeggiare la vittoria.

Qua e là si aggiravano alcuni uomini, per lo più schiavi negri ligi al dovere, che ci tenevano a non ficcare il naso negli affari altrui. Nessuno sembrava notare lo stato in cui era era il primo personaggio del governatorato. Probabilmente, non era la prima volta che lo vedevano ridotto così.

— Gus! — chiamò Paul Rivers.

Lui si fermò, ondeggiando malfermo sulle gambe. — Chi siete? — chiese. Sbatté le palpebre senza riconoscere Rivers.

— Ci siamo parlati alcune ore fa — disse Rivers. — E ho alloggiato per molti giorni nel vostro albergo. — Scandendo le parole in tono fermo, perché Gus potesse afferrarle, concluse: — Sono il dottor Paul Rivers.

— Ah, già. Ora ricordo. — Gus fece un cenno di assenso. — E io, dottore, sono il futuro imperatore del mondo.

"Cosa diavolo vuole dire?", pensò Paul.

Posandogli una mano sulla spalla, agitandogli un dito sotto il naso, Gus Swenesgard disse: — Se ne vanno.

— Chi se ne va? — Paul dovette irrigidirsi per reggere il peso della mano del suo interlocutore.

— I vermi. E quando se ne saranno andati, sapete chi assumerà il comando qui? Io! Proprio io! — Mollando la presa sulla spalla di Paul, Gus indietreggiò di un passo, barcollando. Per un attimo un solo fugace attimo, la sua parlata indistinta era diventata chiara e precisa.

"È ubriaco, oppure dice la verità?", si chiese Paul.

— Andiamo, Gus — disse ad alta voce, sollevando il braccio di Swenesgard per porselo attorno alle spalle. — Vi aiuterò a entrare in albergo.

Quando, con un sospiro di sollievo, depose il traballante Swenesgard sul divano nell'atrio, l'impiegato dietro il banco finse di non vedere, come avevano fatto tutti in città.

Parlando un po' a Rivers, un po' a se stesso, Gus riprese: — Proprio io. Sono io a disporre di tutte le armi autonome che i G.V. mi hanno dato per combattere Percy X. Sono io, adesso, ad avere le armi mentali che prima erano in mano a Percy X. Il potere... — S'interruppe, per ruttare, e concluse: — È nelle mie mani. — All'improvviso, la sua voce riacquistò chiarezza. Gli occhi non erano più velati. — Apparirò in televisione, nell'ora di maggior ascolto. Quando i G.V. si ritireranno, la gente non saprà che pesci pigliare, cercherà un capo, qualcuno che sostituisca i vermi. Tutti vorranno che al comando ci sia un solido essere umano, un americano che conoscono, di cui si fidano. Qualcuno che li conosca. Uno di loro, insomma.

Dopo un breve silenzio. Paul osservò: — L'idea non è cattiva.

— Lo so — disse Gus.

"Gus ha ragione. È questo il momento giusto per farsi avanti", pensò Paul. Swenesgard avrebbe rappresentato l'entità familiare che prendeva il posto dello straniero. L'incarnazione dell'umanità, con tutte le sue limitazioni, con tutti i suoi difetti, ma indubbiamente reale.

Parlando con voce grossa, gli occhi di nuovo imbambolati, la testa che ciondolava, Gus riprese: — Lo vedo chiaramente. La trasmissione comincia. Io arrivo, mentre il presentatore legge un breve messaggio che avevo buttato giù tempo fa per annunciare al pubblico la mia vittoria contri i partigiani negri, una vittoria che neppure i G.V. erano riusciti a ottenere. — Ruttò di nuovo e fu costretto a tacere. La larga faccia rubizza pareva gonfiarsi, assumendo proporzioni ancora più vaste. — Ehi, dottore, andate via? — chiese, sbattendo le palpebre.

"Non mi capita tutti i giorni di parlare col futuro imperatore della Terra", pensò Paul Rivers. "Però, se non mi tolgo dai piedi in fretta per fare qualcosa, può darsi che presto non esista più una Terra su cui comandare."

 

Dieci minuti dopo, Paul Rivers, con Joan accanto, sorvolava i campi illuminati dal chiarore delle stelle, diretto verso le montagne. Inserì il pilota automatico e tirò fuori l'amplificatore di pensiero di Ed Newkom.

— Cosa fai? — chiese Joan, vagamente incuriosita.

— Ho l'angoscioso timore che Percy X sia ancora vivo — rispose Paul.

— Se vorrà usare la sua arma infernale, lascia che faccia — ribatté Joan. — In fondo, che differenza fa?

"Possibile che l'eventuale distruzione della maggior parte della specie umana le sia del tutto indifferente?", si chiese Paul. "Forse è questo che vuole: un oblio totale per tutti."

In tono distaccato, Joan disse: — Tu senti la necessità di salvare il mondo. — Gli lanciò un'occhiata in tralice, come se fosse un ritardato.

Senza farle caso, Paul prese a regolare l'amplificatore. Tentò di mettersi in contatto con Percy X.

— Salve, Paul. — Il pensiero del negro giunse quasi immediato.

— Percy, voglio... — cominciò Paul, ma fu subito interrotto.

— Lo so. Volete che non usi l'arma infernale.

— Appunto.

Il pensiero di Percy arrivò greve di spossatezza.

— Quasi quasi vorrei poterlo fare, ma è impossibile. È la nostra unica possibilità per sconfiggere i vermi. Il mio cosiddetto esercito è stato distrutto, e c'è mancato un pelo che non venissi ucciso anch'io. Non mi resta nient'altro con cui combattere, se non l'arma infernale, e non intendo arrendermi. Non mi arrenderò!

— I vermi se ne vanno — trasmise Paul.

— Per quanto tempo? — chiese Percy, in tono amaro. — Torneranno, e intanto noi sapremo che sono lassù, pronti a riapparire e a riprendere le redini appena lo vorranno.

— Non potete impedirlo, neppure utilizzando l'arma infernale che colpirà soltanto i G. V. presenti sulla Terra. Quelli rimasti su Ganimede non ne subiranno le conseguenze. Come dite voi, potranno sferrare un altro attacco ogni volta che ne avranno voglia.

Dalla mente di Percy, un'ondata di giubilo fluì fino al cervello di Paul. — Non è vero. Prima che io utilizzi la macchina, il mio buon amico Mekkis inserirà la sua mente in quella del Grande Gruppo Comune di Ganimede. Qualunque cosa accada alla mente di Mekkis qui sulla Terra, accadrà contemporaneamente a tutta la classe dirigente di Ganimede, e lassù è la classe dirigente a pensare. Senza i capi, i mostricci potranno ritenersi fortunati se riusciranno a evitare di tornare al livello dell'età della pietra. Cosa può fare uno se gli si taglia la testa, dottore?

— Però distruggerete anche la specie umana — obiettò Paul.

— I G.V. dipendono in tutto e per tutto dai mostricci. Sono deboli. Gli uomini col tempo riusciranno a cavarsela. Non i G.V. — Paul avvertì che dal negro fluiva un'ondata di malinconico calore. — Dottore, spero che siate uno dei forti. In questo caso, ci rivedremo — concluse Percy.

— Sì, ci rivedremo — disse Paul. Non gli restava più niente del quadro mentale dell'altro, se non una sfuocata dissociazione psichica.

 

Il Maresciallo Koli strisciò lentamente attraverso la cabina di comando dell'astronave ammiraglia della flotta spaziale di Ganimede. Il casco che aveva sulla testa lo collegava, attraverso l'amplificatore encefalico della nave, al Grande Gruppo Comune in patria, e a tutti gli altri componenti l'élite sovrana, ovunque fossero.

Nella sua mente risuonò il pensiero di un intero gruppo di cervelli, quelli dei capi della fazione-orologio, espresso in un'unica voce. È completata l'opera di evacuazione?

— Con una sola eccezione — rispose Koli. — Mekkis.

— Mekkis? Mekkis? — Guardandosi attorno, il Grande Gruppo Comune rilevò che mancava una mente. Una, soltanto una. Nessuno aveva voluto mancare all'operazione vitale. Perfino i malati, che a volte venivano esonerati, erano presenti e contribuivano, con il loro tocco di livida sofferenza, all'arcobaleno di quella fusione spirituale.

— Che gli è successo? — chiese l'entità poliencefalica.

— Si è insabbiato — informò Koli. — Io, se non altro, non sentirò la sua mancanza.

— Neppure noi — asserì la voce cumulativa del Consiglio.

— A me mancherà — dichiarò il dissenziente Maggiore Cardinale Zency.

Dai seggi, gli Elettori lo avvolsero in un'ondata di comprensivo cordoglio, alla quale lui reagì risentito, con grande sorpresa generale.

— È pronto il missile? — riprese il pensiero cumulativo della fazione-orologio.

— Sto controllando — rispose Koli, dirigendosi lentamente verso il lucente siluro apportatore di distruzione, ora posto davanti alla camera di equilibrio, pronto per essere messo in posizione di lancio. — Guardate attraverso i miei occhi, amici ganimediani, e vedrete anche voi. — Avvertiva nel proprio cervello la presenza di una moltitudine di esseri che osservavano tutto quello che lui osservava e provavano tutto quello che lui provava. Avrebbero perfino sentito il sapore che avrebbe sentito lui, quando avesse sfiorato con la lingua il pulsante di lancio che doveva proiettare il missile nello spazio.

La nave ammiraglia viaggiava lentamente intorno alla Terra, e il suo lieve moto circolare faceva pendere l'equipaggio, Koli compresso, verso un lato dello scafo. Abituato a cose del genere, il Maresciallo Koli non vi faceva caso. La sua mente compiaciuta, pensava alla catena di avvenimenti che si sarebbero succeduti dopo che lui avesse premuto il pulsante di lancio.

Una volta nello spazio, il missile avrebbe raggiunto un punto vicino alla Terra, ma al di fuori dell'atmosfera terrestre: lì si sarebbe stabilizzato in un'orbita che lo avrebbe mantenuto stazionario fra la Terra e il Sole. Poi, automaticamente, avrebbe proiettato un campo elettromagnetico nello spettro atmosferico, per deviare i raggi del Sole dalla loro rotta normale. Sulla superficie del pianeta non sarebbe più giunto neanche un raggio di sole. "Il mare gelerà fin sul fondo", pensò Koli. "E non soltanto il mare. Anche l'atmosfera, l'aria che i terrestri respirano, gelerà. L'atmosfera precipiterà come una nevicata, finché la Terra sarà priva di gas respirabili, come il pianeta Plutone."

Allora, soltanto allora, il campo prodotto dal missile sarebbe stato spento, e i raggi del Sole avrebbero di nuovo potuto raggiungere la superficie della Terra. L'atmosfera si sarebbe sciolta, diventando dapprima liquida, e poi ancora una volta gassosa. I mari si sarebbero liquefatti, e piano piano, nel corso di quasi un secolo, il pianeta sarebbe ridiventato abitabile. Allora i G.V. sarebbero tornati a colonizzarlo, questa volta unicamente con forme di vita importate dal loro mondo. Era stato senza dubbio un errore, pensava il Grande Gruppo Comune, permettere alle forme di vita locali di esistere, nella vana speranza che potessero diventare utili mostricci. Errore che non avrebbero ripetuto, se avessero mai scoperto altri pianeti abitabili. Da quel momento in poi, la loro politica sarebbe stata: Spegni il sole e aspetta.

 

Nonostante il freddo metallo del fucile laser, Paul Rivers aveva le mani sudate. "Non voglio ucciderlo", pensava, "ma se ci sarò costretto, lo farò."

— Capisco — disse Percy X, lasciandosi cadere contro la scabra parete di roccia, aspettando che il mondo che gli roteava attorno si riassestasse lentamente.

— Vi seguivo. Vi avevo visto dall'alto — spiegò Paul Rivers. — Dovete essere stanco. Non ci avete neppure avvistati telepaticamente.

— Già, sono stanco — ansimò Percy X.

Paul si rese conto che il negro aveva cominciato a riprendersi ed era già in grado di valutare la situazione con la scaltrezza di un felino in trappola. Dapprima, il capo dei partigiani negri osservò Rivers e il suo fucile; poi guardò l'aerauto parcheggiata alle sue spalle. Volse poi lo sguardo su Joan, che si era inginocchiata per studiare qualcosa sul terreno smosso e sassoso del fianco della collina. — Salve, Joan — le disse, ma lei non lo guardò neppure, e tanto meno rispose.

— Ha trovato un formicaio — spiegò Paul. — Di recente, manifesta molto interesse per le formiche.

— Sono agitate — disse Joan, in tono spento. — Intuiscono che sta per succedere qualcosa.

Rivolto a Rivers, Percy disse: — Leggo nel vostro pensiero che non avete ancora distrutto l'arma infernale, anche se siete venuto qui proprio per questo.

— Siamo arrivati soltanto pochi minuti prima di voi — gli fece notare Paul. — Sì, so che è là nella grotta. — Continuò, gesticolando con la mano libera. — Sull'aerauto c'è un rilevatore. Ma vi impedirò di servirvene, a costo di arrostirvi con questo fucile laser.

Ormai Percy respirava regolarmente, e il suo sguardo prima spento e febbricitante, era diventato penetrante e acuto. — Ditemi — disse con lentezza, in tono freddamente calcolatore — avete mai sparato a un telepatico?

— Salite sull'aerauto — ordinò Paul, alzando leggermente la canna del fucile.

Senza fargli caso, Percy X continuò: — Non è facile sparare a qualcuno che sa leggere il pensiero, dottore. Prima che premiate il grilletto, saprò già in che direzione intendete mirare. — Sorrise, poi aggiunse: — E saprò anche se avete veramente intenzione di sparare.

— Salite sull'aerauto — ripeté Paul Rivers. E intanto si stava chiedendo: "E se avesse ragione? Se non riuscissi a sparargli?".

— Non credo che ci riuscireste — disse Percy. — Mettete giù il fucile. Io non voglio farvi del male, come voi non volete farne a me.

Già da un po' di tempo, a Paul sembrava di essere immerso in un'atmosfera irreale, ma aveva attribuito la sensazione al flusso residuo di un proiettore d'illusioni, forse utilizzato di recente in quella regione montana. "In questo caso, però, l'effetto dovrebbe piano piano diminuire, non aumentare come mi sembra stia accadendo" pensò.

— L'ho notato anch'io — disse Percy. — Si direbbe che nel tempo ci sia qualcosa di anormale, come se non esistesse più una netta distinzione tra passato e futuro. — Aveva un'espressione perplessa, e il suo sguardo penetrante si spostava rapido qua e là, mentre rifletteva, poi, d'un tratto, sobbalzò e disse: — Sapete che significa.

— No — rispose Paul. Stava in guardia, senza distogliere gli occhi dal capo dei partigiani negri accovacciato davanti a lui.

— Ho già vinto — dichiarò Percy. — Più avanti, nel tempo ho già messo in azione la macchina. Più ci avviciniamo al momento, più ne avvertiamo le emanazioni. Balkani non diceva che spazio e tempo sono soltanto illusioni, prodotte da un'attenzione personale selettiva? Questa è la conferma, capite? È anche la conferma che non c'è modo di fermarmi. È inevitabile che io metta in moto la macchina.

Sgomento, Paul pensò: "Posso fare una cosa sola. Devo ucciderlo, se voglio impedirgli di ammazzarci tutti. D'altra parte, come posso farlo, mentre è così inerme e indifeso?"

— Indifeso? — ripeté Percy in tono ironico, facendo il gesto di alzarsi.

Paul premette il grilletto, ma l'altro non c'era più quando la scarica perforò la roccia. Un attimo prima, il negro aveva schivato il pericolo con un balzo, rotolando su se stesso, e adesso era già in piedi, un po' più vicino a Rivers.

— Vedete? — disse, facendo un altro passo avanti.

C'era qualcosa di strano nella luce. Anziché proiettarsi diritta dall'alto in basso, sembrava curva. I raggi formavano una specie di cono d'ombra fra Rivers e Percy X. Al tempo stesso, Paul avvertì un bizzarro torpore mentale che lo costringeva a compiere uno sforzo per concentrarsi su quello che voleva fare.

Avanzando di un altro passo, Percy disse: — Avanti, amico! Sparate, se ne siete capace.

Paul sparò di nuovo, e questa volta il negro si spostò di lato con un lieve balzo, con grazia e agilità.

— Ehi, sapete una cosa? — disse. — Adesso sono in contatto con Mekkis, e lui vi osserva attraverso i miei occhi. È pronto a collegarsi con la mente collettiva di Ganimede un attimo prima che io azioni la macchina. Stiamo per sconfiggerli davvero! Gliela faremo vedere! Mi sta dicendo che anche dov'è lui lo spazio appare strano. Si direbbe che il tempo stia confondendosi. Dice che un suo Oracolo glielo aveva predetto, per cui accadrà, e anche voi fareste bene a crederci, amico.

Un altro passo avanti. Adesso Percy distava meno di tre metri. "Con un altro balzo mi sarà addosso", pensò Paul.

— Avete ragione — disse il negro, tendendo i muscoli, pronto a scattare.

Paul sparò, ma l'esplosione lasciò soltanto una striscia bruciacchiata sulla camicia del negro. Sparò di nuovo, senza colpire il bersaglio. Non ebbe modo di sparare una terza volta: Percy X lo abbatté col taglio della mano, con una mossa di judo che lo scaraventò nella polvere, semisvenuto, a gambe e braccia divaricate. Prima di sprofondare nel buio, Rivers vide Joan che lo osservava con la fronte aggrottata, e diceva: — Attento! Quasi cadevi sul formicaio.

 

"Sono così sbadati!", si disse Joan. Continuò a guardare in silenzio, mentre Percy afferrava il fucile di Rivers per lanciarlo oltre un costone. Adesso, il capo dei partigiani negri rideva, la faccia illuminata dal sogghigno del vincitore. Continuando a ridere in tono più sommesso, si avviò verso l'imboccatura della grotta.

Joan tornò a rivolgere l'attenzione alla colonia di formiche e aggrottò la fronte. Nuovamente turbati, gli insetti avevano preso a girare senza meta, anziché accudire alle loro faccende con la consueta precisione.

Quando udì un gemito, Joan alzò gli occhi con aria incuriosita.

Paul Rivers si era rialzato a fatica, e ora scuoteva la testa, tentando di schiarirsi le idee. Guardò dentro la grotta. Vide Percy al di là dell'imboccatura, e benché non si fosse ancora ripreso dal colpo ricevuto, si avviò verso di lui, quasi correndo. Il negro lo vide arrivare e si tuffò nelle tenebre della caverna. Un attimo dopo, anche Paul era sparito all'interno. Joan udì lo scalpiccio e l'ansimare dei due uomini che lottavano. Seguì un urlo strozzato, tra l'umano e l'animalesco, poi il silenzio.

Non udendo altri rumori, dopo una breve attesa Joan si chinò a guardare più da vicino le formiche. All'improvviso, un uccello piombò a terra, poco lontano, con le ali che battevano ancora; poi un altro, e un altro ancora. "Piovono uccelli", pensò Joan, divertita.

 

Uno dei capi della fazione-orologio trasmise a Koli un pensiero soffuso d'irritazione. — Mekkis si è appena messo in contatto.

Koli scosse la testa. "Cosa importa?", pensò.

Allungò la lingua verso il pulsante di lancio, accorgendosi, senza particolare apprensione, che per uno strano effetto visivo e mentale di ripetizione gli pareva di avere compiuto quel gesto già molte volte.

"Sarà colpa dell'agitazione", pensò.

Poi gli sembrò che il pulsante si spostasse, allontanandosi da lui. La sua lingua si allungava sempre più, cercando di raggiungerlo, ma il pulsante continuava a ritrarsi. Ormai la lingua era diventata più lunga del corpo, e cresceva senza sosta, ma il pulsante non era più vicino. Preso da un pensiero folle, frutto del terrore, Koli suppose (e vedeva giusto) che il pulsante si allontanasse da lui nel tempo, non nello spazio.

— Cosa succede? — chiese al Grande Gruppo Comune. E d'un tratto, come se fosse la risposta alla sua domanda, si trovò nella mente di Mekkis.

Mekkis pensava: "E va bene, grande e glorioso Gruppo Comune. Io, Rudolph Balkani, ti sto uccidendo. Tu lo sai e continuerai a saperlo a lungo. Vermi, finirete tutti dentro la vasca di privazione sensoriale!".

Quando tentò di ricordare chi fosse lui stesso, Koli dovette constatare che il proprio nome gli sfuggiva. Sapeva soltanto che non era né Mekkis né Balkani, ma uno che aveva cercato di premere un pulsante. "Ah, lo so", pensò a un tratto. "Sono Percy X." Quasi senza volerlo, allungò un dito dalla pelle scura in cerca del pulsante di una macchina piccola, però molto potente, situata in una caverna fra i monti terrestri.

Poi la luce si curvò, e si curvò ancora, formando una specie di tubo di un grigio verdastro; un tunnel lungo il quale, un anno dopo l'altro, si inoltrava lentamente un dito della pelle scura.

"Se deciderete di usare quella cosa, non ditemelo", pensò. "Non voglio saperlo."

Poi sentì l'ago che gli penetrava nel braccio: il braccio di Percy-Koli-Balkani.

Il dito nero raggiunse il pulsante, mentre una nube formata di occhi guardava con orrore muto, e tutte le stelle nello spazio lanciavano grida di estasi mista a dolore. Il dito scuro premette il pulsante, e intanto eserciti di fantasmi pirotecnici apparivano e scomparivano come una pellicola che scorra a velocità pazzesca in un proiettore. Intere scene sembravano sovrapporsi una all'altra. Risuonava anche una musica, le cui note si sgranavano a ritmo frenetico, tanto acute che soltanto un animale avrebbe potuto coglierle. Eppure Koli riusciva a sentirle.

Poi il dito si spezzò, e la luce ricurva, non potendo più sostenere uno sforzo ulteriore, si spezzò a sua volta. Mentre il rumore si spegneva bruscamente e la luce si faceva sempre più fioca, sino a dileguare, nel vuoto echeggiò l'ultimo pensiero di Koli: "Chi sono?".

Essendo diventato tenebre, non poteva rispondere alla propria domanda, perché l'oscurità non sa parlare. Non può neppure pensare, né sentire, ma solo vedere.

 

16

 

Gus Swenesgard stava in piedi davanti allo specchio scheggiato sul comò della sua stanza, la più bella dell'albergo. Brindava a se stesso con un costoso whisky anteguerra, il Cutty Sark. "Al futuro dominatore del mondo", pensò vuotando d'un fiato il bicchiere incrinato. Intanto, la stanza cominciava a riempirsi di un innaturale effetto luminoso che assumeva l'aspetto di un tunnel, a malapena visibile in quella luce dalla tonalità sempre più grigia. Gus non vi fece caso, supponendo che la visione dipendesse dall'alcool che aveva ingurgitato.

Con un senso di ebbro compiacimento, pensò ancora: "Questa roba è una cannonata". Poi le luci si spensero. "Dovrò chiamare uno degli schiavi addetti alla manutenzione", pensò, seccato.

Quando fece per parlare, la voce non gli uscì di bocca. Gli pareva di non avere corde vocali, e neppure lingua e labbra. Tentò di muovere le mani, di portarsele alla faccia, ma dovette constatare che era anche privo di mani.

Erano spariti anche i piedi, le gambe, il corpo.

Tese l'orecchio, ma nessun rumore rompeva l'oscurità, neppure i battiti del suo cuore. "Dio mio" pensò, "sono morto."

Si sforzò di distinguere qualcosa, qualsiasi cosa, anche soltanto una visione creata dalla sua fantasia. La sola cosa che gli riuscì di evocare pareva invece essere una debole persistenza dell'immagine che lui guardava nel momento in cui erano calate le tenebre: la propria immagine riflessa nel vecchio specchio incrinato dell'albergo.

Sentendosi un fantasma privo di corpo, non più un persona, fissò la propria pseudoimmagine, e d'un tratto provò una profonda avversione per quella carne disgustosa, gonfia e sudaticcia. Si ritrasse con un balzo, avvertendo un senso di sollievo nel vedere che in distanza l'immagine rimpiccioliva, affievolendosi.

Fu colto da un distaccato senso di liberazione; come se, avendo perso il proprio corpo solido, potesse ora volare attraverso lo spazio, e anche attraverso il tempo, senza incontrare nessun ostacolo.

"Ecco, cosa significa essere un angelo", pensò.

 

Nell'oscurità, Mekkis pensò: "C'è stato un terribile sbaglio".

Niente somigliava a quanto lui aveva previsto, basandosi sulla Terapia dell'Oblio del dottor Balkani. Si era aspettato orrori, allucinazioni, una vasta gamma d'immagini grottesche e fantastiche, o forse anche lievi fenomeni formati da dischi rotanti di colore purissimo. Tutte cose di cui aveva letto nelle memorie, nei libri e nelle monografie di Balkani, in aggiunta a tutto quello che aveva sentito dire sui proiettori d'illusioni utilizzati dai partigiani negri.

"Il nulla, no. Il nulla non è giusto", pensò.

Ancora più dolorosa dell'esperienza in sé, era l'idea che Balkani avesse sbagliato, avesse commesso un errore fondamentale.

"A quali giochi mi sono lasciato andare?", si chiedeva. "Non sono Balkani, non sono neppure un verme di nome Mekkis. Sono una parte, non sono un tutto. Sono solo uno dei tanti organi dell'immenso corpo chiamato il Gruppo Comune, però un organo canceroso, e adesso sono riuscito a uccidere l'entità di cui sono parte."

Senza l'aiuto dei mostricci, nessun ganimediano della classe dirigente poteva sopravvivere più di qualche giorno, ma in quelle tenebre né lui né altri potevano chiamare un mostriccio.

"Questa è la morte", pensò, "la morte per tutti noi. Non è come l'avevo immaginata, però. Credevo che sarei stato in grado di assaporare l'agonia dei miei nemici, credevo che sarebbe stato un destino grandioso e spettacolare, paragonabile agli accordi finali di una musica. Non è così, invece. È il nulla, il nulla assoluto, e io mi ci trovo solo, nel bel mezzo."

Da qualche parte, nella desolazione della mente del governatore, una voce sembrava dire: "La vostra morte... sarà assai peggiore...". L'Oracolo! E diceva il vero.

 

Sepolto nelle tenebre, Paul Rivers pensava: "Ho fallito. Gli stringevo il collo, ma lui era troppo forte per me, ed eravamo troppo vicini alla macchina. È riuscito in qualche modo ad avvicinarsi e ad azionarla, e adesso ha fermato l'orologio".

Ma non si lasciò prendere dal panico. Non si era ancora completamente arreso. Si rilassò mentalmente, cercando di pensare con la maggior chiarezza possibile, e il compito non risultò difficile, grazie alla totale mancanza d'interferenza e di fonti di distrazione.

"Si direbbe che il mio sistema nervoso autonomo sorregga il mio corpo in modo soddisfacente", concluse. "Il cervello funziona ancora troppo bene per essere sotto l'influsso di qualche difficoltà causata dal mio corpo fisico. Di conseguenza anche il mio corpo, come la mente, funziona in maniera perfetta, benché io non possa sapere se è in grado di ubbidire o no ai comandi del cervello."

Tanto per fare l'esperimento, ordinò alla propria mano di muoversi in direzione della macchina, ma incappò subito in una difficoltà insormontabile. Non sapeva più quale fosse l'alto e quale il basso, e tanto meno in che direzione si trovasse la macchina. Impossibile agire senza il bagaglio sensoriale.

"Eppure", pensò, "se mi muovessi a casaccio, avrei buone probabilità di entrare accidentalmente in contatto con la macchina, di colpirla, forse anche di romperla. Se ricordo bene, dalla rapida visione che ne ho avuto, è un apparecchio delicato."

Continuò a lungo a trasmettere segnali al proprio corpo, ordinandogli di girarsi, di sferrare calci, di agitare le braccia, ma per quanto gli riuscì di stabilire, non accadde niente. Non sentiva neppure il terreno sotto i piedi. Si sarebbe detto che la gravità, fondamentale onnipresenza, fosse stata annullata.

Poi avvertì un lieve senso di vertigine.

"Potrebbe essere indizio di fatica", pensò, con un lampo di speranza che lo indusse a raddoppiare gli sforzi. Ancora una volta, però, non accadde niente. "Più la macchina resterà in funzione, più danno arrecherà. L'effetto deve irradiarsi come un'onda concentrica, e Dio solo sa quando s'indebolirà e cesserà. Devo trovare una soluzione."

Un pensiero vagante gli attraversò la mente. Secondo le teorie di Balkani, essendo stata staccata mediante la Terapia dell'Oblio dalla comune realtà condivisa da tutti, Joan Hiashi avrebbe dovuto essere immune all'effetto della macchina. "Il che significa che potrebbe spegnerla", concluse.

Ordinò alla propria voce di urlare, alle labbra di formulare le parole: — Joan! Spegni la macchina! — Più e più volte impartì ordini al proprio corpo, senza sapere se in realtà produceva suoni. Continuò per un periodo di tempo che soggettivamente gli sembrò protrarsi per almeno un'ora, ma l'oscurità restava impenetrabile.

S'interruppe di nuovo, per riflettere. La soluzione, ammesso che esistesse, si trovava in una delle teorie di Balkani, ma in quale? "Magari avessi studiato a fondo la Terapia dell'Oblio e la Teoria del Punto di Convergenza", si disse, "invece di limitarmi a scorrerle come ho fatto."

Teoria del Punto di Convergenza.

Forse.

Stando all'ipotesi di Balkani relativa al Punto di Convergenza, esisteva una scorciatoia attraverso la quale era possibile un contatto fra una qualsiasi particella di materia e un'altra, a qualunque distanza si trovassero. Proprio per mezzo di questo Punto di Convergenza, le vibrazioni dell'aura si tramutavano in telepatia a lungo raggio. Sulla base di quella teoria, Balkani era riuscito ad addestrare molte persone, tra le quali Percy X, rendendole capaci di leggere a grande distanza le menti altrui. In effetti, però, nella teoria era implicito che chiunque, in date condizioni, avrebbe potuto essere in grado di creare un contatto telepatico. In fin dei conti, si disse Paul, tutti avevano un rapporto col Punto di Convergenza.

"Il che significa", capì d'un tratto, "che anch'io potrei avere poteri telepatici, se non altro in teoria. Posto che Balkani vedesse giusto."

Di nuovo il pensiero gli tornò a Joan Hiashi. Non poteva essere sicuro che lei non subisse l'influsso della macchina, però, se era così, voleva dire che la ragazza era l'unica persona del sistema con la quale valesse la pena di mettersi in contatto. Cercare di avvicinare chiunque altro sarebbe semplicemente servito a creare una fusione fra due stati di cecità, formandone uno solo.

Secondo le asserzioni di Balkani, in che modo si stabiliva la personalità? Mediante la consapevolezza selettiva. "Io sono Paul Rivers, perché non sento le sensazioni sperimentate da un'altra persona, da Joan Hiashi, poniamo. Normalmente, le mie sensazioni personali sommergerebbero qualsiasi cosa io potessi assorbire da lei, però adesso, non avendo più sensazioni, perfino le lievissime impressioni di Joan sarebbero molto più forti delle mie."

Per cominciare, prese a immaginare di essere donna.

"Sono piccola, delicata, vulnerabile", si disse. "Percepisco la realtà in senso femminile, non maschile. Sono sensibile, graziosa, desiderabile."

Scoprì che non era difficile credere fermamente a tutte le sensazioni che creava a livello mentale, dal momento che la sensibilità reale e le reali impressioni sensorie non esistevano più a contrastarle.

"Adesso, essendo donna, devo acquistare una personalità, cioè devo diventare una donna specifica" decise. "So qual è la caratteristica saliente della personalità di Joan: il distacco. È la donna più distaccata del pianeta, quindi, per trasformarmi in lei, anch'io devo essere distaccato. Però non al punto da diventare altrettanto indifferente al destino dell'umanità..."

"Come si scinde facilmente la mia personalità!" pensò poi, sorpreso. Aveva sempre creduto che la cosa fosse possibile soltanto a uno schizofrenico, ma in effetti sembrava l'atto più semplice del mondo, se non altro del mondo che lo circondava in quel momento.

"D'altra parte" pensò con amara ironia, "forse sono schizofrenico, e non lo sapevo."

Poi, d'un tratto, avvertì una sensazione, lievissima, eppure vitale, che non era frutto della fantasia. Sentiva un'impressione di freddo. Un'oppressione. Era seduto su una cosa dura. Le sensazioni divennero troppo intense per essere fantasie suggerite dalla mente. Era effettivamente donna, e appena ebbe aperto gli occhi, capì che la donna era Joan.

In mezzo al terriccio, le formiche si aggiravano disordinatamente. Alcune, rovesciate sul dorso, agitavano le zampe, altre correvano qua e là frenetiche. Il cielo si era oscurato, e questo indicava che probabilmente era trascorso molto tempo, forse parecchie ore. Joan sedeva ascoltando l'eco, ora fragorosa ora sommessa, delle urla, dei gemiti, dei lamenti animaleschi che risuonavano nei boschi circostanti. Attraverso le sue orecchie, anche Paul udiva quei suoni, e avvertiva pure il godimento che Joan ne traeva, come se fossero una musica, e la sua indifferenza di fronte alle sofferenze che esprimevano.

Fu tale la ripugnanza suscitata da quelle storture che quasi si ritrasse, per scostarsi da lei, rischiando di spezzare il tenue legame che univa le loro menti.

"Non tocca a me giudicarla", pensò. La convinzione valse a renderlo di nuovo partecipe di ogni sensazione provata dalla ragazza, di ogni suo pensiero. L'aspetto più sconcertante della vicenda era appunto costituto dal fatto che lui condivideva i pensieri di Joan, tanto estranei che avrebbero potuto essere quelli di una creatura evolutasi su un altro pianeta. Eppure c'era qualcosa di familiare, in quei pensieri.

"Una parte di me era così", si disse. "Quella parte che vuole soltanto guardare e mai agire. Sta bene, Joan", concluse. "Guarda questo."

Impartì un ordine mentale alla mano destra della ragazza, dicendole di sollevarsi. La mano ebbe un lieve fremito, ma rimase dov'era.

Con uno sforzo di volontà, Paul pensò: "Lascia che accada, Joan".

Joan ubbidì. La sua mano si alzò pian piano, fino all'altezza del viso, e lei la fissò con gioioso stupore, convinta che la mano avesse compiuto il gesto spontaneamente. Non opponeva nessuna resistenza. Qualunque movimento Paul comandasse al suo corpo, il corpo ubbidiva, mentre lei si limitava a godere nel sentirsi posseduta da un'anima che non era la sua.

Paul ordinò al corpo di Joan di alzarsi, e il corpo si alzò. Ordinò al corpo di Joan di avviarsi verso la grotta, e il corpo di avviò verso la grotta.

"Strana sensazione, quella di sentire la realtà per mezzo del corpo e della percezione altrui" pensò Paul. "Devo continuamente tenere conto della sua corporatura più minuta, del suo minor peso, e anche del suo modo di camminare tipicamente femminile, dovuto alla diversa articolazione del bacino." Paul-Joan entrò nella grotta, e subito si fermò, cercando di vedere nell'oscurità profonda. Con le pupille dilatate, vide qualcosa che lo sgomentò assai più di tutto quello che aveva visto negli ultimi giorni. Vide se stesso.

Il corpo di Paul Rivers giaceva accanto a quello di Percy X, ma il corpo di Paul Rivers respirava, l'altro no.

"Possibile che si tratti di me?" si chiese. Entrambi i corpi erano coperti di sangue ancora umido. Dopo lo choc iniziale, Paul riuscì a ricostruire l'accaduto. Al momento in cui la macchina era entrata in funzione, lui era avvinghiato a Percy, e quando aveva preso a dimenarsi nel tentativo di spaccare la macchina, in effetti aveva percosso brutalmente Percy X, provocandone la morte. Tutto si era svolto senza che nessuno dei due uomini se ne rendesse conto.

Anche lui, però, aveva riportato ferite. Servendosi del corpo di Joan, Paul si chinò per esaminarsi più da vicino. Vide che le dita erano fratturate, le braccia coperte di abrasioni e di tagli, che si era procurato lui stesso dibattendosi inutilmente contro il pavimento roccioso della grotta.

Avanzando con cautela, allungò una mano e spense la macchina.

Contemporaneamente, dolori lancinanti lo invasero. Nell'attimo in cui la macchina si fermò, lui si ritrovò nel proprio corpo ferito, mentre da mille direzioni gli squillavano nel cervello i campanelli d'allarme del dolore fisico. Misericordiosamente, dopo pochi secondi perse i sensi.

 

— Sono morti — dichiarò sospirando il mostriccio medico. — Ogni membro dell'élite priva di arti è morto. — Guardò fuori del portello, verso le altre astronavi della squadra che vagavano senza meta nello spazio circostante. In distanza, si vedeva il globo del pianeta Terra, ancora verde, ancora simile, in apparenza, e un frutto maturo pronto per essere colto, se qualcuno avesse desiderato conquistare un pianeta.

— Ma perché? — chiese timidamente uno dei mostricci navigatori.

Il mostriccio medico si strinse nelle spalle. — Il Grande Gruppo Comune ha proiettato qualcosa che io ho visto, perché ero in contatto telepatico col Maresciallo Koli, quando lui è stato raggiunto dalla proiezione. Era una tenebra profonda e senza fine. Naturalmente, ho subito interrotto il contatto, altrimenti sarei stato distrutto anch'io.

— Come mai il Maresciallo Koli non ha interrotto il contatto? — chiese un altro mostriccio navigatore. Avrebbe potuto salvarsi anche lui.

Allontanandosi dal portello, il mostriccio medico rispose: — L'élite sovrana non si comporta così. Nei momenti di pericolo passa al sistema poliencefalico e, nel caso specifico, più erano impauriti, più hanno cercato di formare un tutto unico. In questo modo si sono esposti maggiormente agli effetti della forza malefica che fluiva verso ognuno di loro attraverso il Grande Gruppo Comune.

— Una debolezza di cui noi non saremo vittime — affermò solennemente uno dei mostricci più giovani.

Il medico sorrise, notando il tono di sicurezza del giovane. Se il Maresciallo Koli fosse stato ancora in vita, non si sarebbe espresso così. "I giovani si adatteranno e cominceranno a ricostruire" pensò. "Speriamo che non tornino a pensare anche alla conquista interplanetaria. Questo errore è già stato commesso una volta. È sufficiente..."

— Torniamo a casa — disse, e gli altri si allontanarono per preparare l'enorme astronave al viaggio di ritorno. Cupo, il mostriccio medico si disse: "Adesso, siamo noi i responsabili di noi stessi".

Strana e nuova, quell'idea gli piaceva, lo affascinava, pur colmandolo di timore. "Ora che l'abbiamo ottenuta", pensò, "spero che la libertà non risulti un peso troppo gravoso."

 

17

 

Alla luce improvvisa, Gus Swenesgard sbatté le palpebre. Per un attimo provò un senso di sollievo ineguagliabile. Rimase sdraiato, formulando una goffa preghiera di ringraziamento al Dio della sua fede protestante. Poi fu sommerso da un'ondata di panico. "Sono ancora solo?", si chiese.

Si alzò barcollando e si avvicinò alla finestra. Nelle ombre della sera che calava, vide la familiare strada polverosa. Era deserta. Di secondo in secondo il suo terrore aumentava. Uscì frettoloso nel corridoio dell'albergo, urlando: — C'è qualcuno?

— Ci sono io, padrone. — La voce di uno dei suoi fedeli schiavi negri era risuonata oltre un angolo del corridoio. Gus andò di corsa in quella direzione, e quando i due uomini si trovano l'uno di fronte all'altro, lo schiavo disse: — Siete grasso e meschino, però meglio di niente. — Aveva la voce rotta per l'emozione.

— Tu sei un vecchio pigrone, brutto come un rospo, ma non avevo mai visto in vita mia uno spettacolo più bello della tua faccia in questo momento — ribatté Gus. Scoppiarono entrambi a ridere istericamente, e tutt'attorno echeggiarono altre risate. Si aprì una porta, poi una seconda, e ben presto tutti gli occupanti delle stanze uscirono tremanti, rivolgendosi chiassose frasi di saluto.

In mezzo a quel turbinio di gente, Gus gridò: — Farò staccare tutte le porte dai cardini. Questo sarà il primo albergo al mondo senza porte! — "Mi vogliono bene", pensò quasi con sgomento. "Mi vogliono bene davvero. Basta vedere come mi buttano le braccia al collo. Quella vecchia mi ha addirittura baciato. È un miracolo d'amore quello che è successo. Un messaggio d'amore che Dio ha rivolto a tutta l'umanità."

— Ehi! — gridò, soverchiando il frastuono. — Vi piacerebbe che diventassi re?

Uno degli schiavi negri urlò di rimando: — Potete diventare il diavolo che vi pare, signor Gus. Lasciate soltanto che vi guardi.

Altre voci si unirono, inneggiando: — Evviva re Gus! Evviva, evviva!

Swenesgard si staccò dalla folla. Ansimando, con passo pesante, si avviò lungo il corridoio in cerca di un videofono. Tremava per l'eccitazione, tanto che i gettoni gli scivolarono fra le dita e rimbalzarono sul pavimento. Chiamò la più vicina stazione televisiva. — Sono Gus Swenesgard — dichiarò — e voglio prenotare sessanta minuti di trasmissione mondiale via satellite nell'ora di maggiore ascolto. Per domani sera, diciamo. — Ripeté la richiesta al direttore della stazione, appena ebbe ottenuto di parlargli.

— Chi vi ha dato l'autorizzazione? — chiese il direttore.

— Sono il capo effettivo del governatorato del Tennessee — rispose Gus, secco.

— Siete in grado di pagare? — Il direttore gli disse un prezzo approssimativo.

Gus sbatté le palpebre. — C... C... certamente — affermò. Quella cifra lo avrebbe rovinato, ma ne valeva la pena.

— Affare fatto — disse il direttore della stazione televisiva. — Mandare in onda voi o un altro è lo stesso, ma voi, almeno, siete un essere umano. Da quando si sono riaccese le luci, qui si è scatenato l'inferno. Sapete cosa sta succedendo, adesso? Il nostro capo telecronista si sta spogliando davanti alle telecamere e urla: "Vi amo!". Prevedo che fra non molto si metterà a fare qualcosa di veramente pazzesco, come dire la verità per esempio.

— Allora, avrò quel tempo di trasmissione? — Gus non credeva quasi alle proprie orecchie.

— Senz'altro, ma il pagamento dev'essere anticipato.

— In mondovisione?

— Contateci.

— Evviva! — gridò Gus.

— Ditelo ancora — lo invitò il direttore della stazione televisiva. — Mi piace sentire qualcuno tanto felice.

— Evviva! — urlò Gus nel microfono.

— Perché non venite a pranzo a casa mia con vostra moglie, prima della trasmissione? — chiese il direttore. — Mi farebbe proprio piacere che i miei familiari conoscessero il capo effettivo del governatorato del Tennessee.

— Non sono sposato — spiegò Gus. — Vedete...

— Non importa. Potete sposare la mia figlia maggiore. Dopo quanto è successo, sono sicuro che le andreste a genio, quale che sia il vostro aspetto.

— Accetto l'invito a pranzo, se non altro — disse Gus e, dopo aver ringraziato, appese il ricevitore. "Mi vogliono bene", pensò ancora. "Tutti al mondo mi vogliono bene."

In quel momento il videofono squillò, e lui afferrò il ricevitore.

— Gus Swenesgard? — chiese una voce. Lo schermo non s'illuminò, ma Gus non si sorprese. Succedeva, a volte, con quell'apparecchio.

— Sì, parla Swenesgard. — Benché gli sembrasse che avesse qualcosa di familiare, non riusciva a indentificare la voce. Inoltre, nel tono affiorava un che di strano, che gli dava la pelle d'oca.

— Così, vuoi diventare re. — La voce ignota era fredda, spietata e sprezzante.

— Sì — rispose Gus, che d'un tratto non si sentiva più tanto sicuro di sé. Pensò con un senso di sgomento: "Ecco qua almeno una persona che non mi vuol bene".

— Ti conosco, Gus Swenesgard — dichiarò la voce. — Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso. Non sei neppure capace di vincere la tua ingordigia. Come puoi pretendere di governare gli altri se non sai governare te stesso?

— Non sono peggiore di tanti altri... — cominciò Gus, in tono difensivo.

— È una buona ragione per autonominarti re? Soltanto perché non sei peggiore degli altri? — La voce si fece dura, inesorabile. — Sei un pagliaccio, un rapace e roboante pagliaccio di quart'ordine. — Crudele, la voce continuò: — Ipocrita, egoista, pallone gonfiato, razzista, col deretano che pare il grugno di un porco.

Impaurito, Gus disse: — C... c... chi credete di essere?

— Non sai chi sono?

— Macché! — rispose Gus. Nessuno gli aveva mai parlato in quel tono, o per lo meno non gli capitava più da molto tempo.

— Eri presente alla mia nascita, non ricordi? Nelle grandi tenebre, nel silenzio.

— Cosa sei un pazzoide? — La voce di Gus tremava.

— Ti piacerebbe potermi ridurre al livello di un semplice pazzoide, vero? Conosco il tuo modo di ragionare, Gus, e so come dividi gli esseri umani in buoni e cattivi, in redenti e dannati. Naturalmente, tu sei uno dei redenti.

— Sono un buon cristiano — borbottò Gus, cercando di reagire.

Implacabile, la voce continuò: — Tu giudichi malvagi gli impulsi della carne, ma non riesci a liberartene. Non sei capace di fermare le funzioni del tuo corpo, quelle che ritieni sudicie, peccaminose e innominabili, per cui vivi con un perenne senso di colpa. Sei un essere abominevole, Gus. Per me, per tutti, e specialmente per te stesso. Non potrai mai diventare re. Hai un nemico potente che saboterà sempre quello che farai e quello che tenterai di fare. A mano a mano che tu costruirai, lui distruggerà.

— Chi? — urlò Gus, adesso terrorizzato. — Chi mi tratterà così?

— Io — rispose la voce. Poi si udì lo scatto che metteva fine alla comunicazione.

Scostandosi con passo malfermo del videofono, Gus sentì echeggiare scoppi di risa lungo il corridoio. Per un attimo gli parve che deridessero lui. Ma naturalmente, non era così.

"Un pazzoide", pensò tremando. "Non devo fargli caso."

Eppure, le parole pronunciate al videofono lo avevano trafitto come lame roventi, e adesso lo tormentavano. Per quanto si sforzasse, non riusciva a dimenticarle.

"Ho da fare", pensò, tornando furtivo nella sua stanza per scrivere il discorso che avrebbe pronunciato alla televisione... e per vuotare la bottiglia di whisky.

 

Joan sedeva ancora tranquilla nella sala d'aspetto, quando Paul Rivers uscì dall'ambulatorio medico con le mani fasciate e tutte le dita racchiuse in stecche organiche. — Non era necessario che mi aspettassi — le disse. — Posso benissimo arrangiarmi da solo. — "Però sono contento che tu l'abbia fatto", aggiunse fra sé. In effetti, non era in grado di arrangiarsi da solo, né lo sarebbe stato per parecchio tempo, come sapevano entrambi.

Dopo avergli aperto la porta, Joan lo accompagnò fuori, nel corridoio. Paul, rendendosi conto che la ragazza aveva notato il suo passo zoppicante, si sforzò di camminare il più naturalmente possibile. "Non voglio che senta compassione per me", pensò. "Che sciocchezze!" aggiunse poi. "Lei non prova niente per me, né in bene né in male. La sua indifferenza totale deriva dal suo condizionamento."

Però si era data la pena, quando lui era privo di sensi, di trascinarlo fino all'aerauto per prestargli i primi soccorsi e condurlo quindi dal medico. Non lo aveva abbandonato a morire nella grotta, come avrebbe potuto fare benissimo.

Mentre salivano in ascensore, Joan disse con fare esitante: — Paul, io... — Poi tacque, mentre la porta dell'ascensore si chiudeva. Ma quando furono scesi per un poco in silenzio, riprese: — Lassù, fra i monti, ho provato una sensazione molto strana. Quella di essere te. Eppure, sotto un altro aspetto, non era tanto strana. Era come se una parte di me fosse sempre stata te.

La porta dell'ascensore si aprì, e insieme uscirono nell'atrio principale dell'istituto medico. Paul disse: — Io ho provato la stessa cosa nei tuoi confronti, quando sono diventato parte di te. — Avanzarono, facendosi strada tra la calca di gente felice e festante che riempiva l'atrio. Ogni tanto, qualcuno li fermava per abbracciarli con entusiasmo. A Paul non era sgradito sentirsi brancicare a quel modo, benché nelle sue particolari condizioni ogni urto fosse fonte di dolore. Accanto all'ingresso principale, la folla era meno fitta. Poterono sentire di nuovo quello che si dicevano.

— In un certo senso era piacevole essere te — osservò Joan. — Sentirsi un essere umano vero vivo, dotato di sentimenti. Per me è ormai troppo tardi, si capisce.

Paul si fermò a fissarla. Gli occhi di lei erano umidi e brillanti nelle luci della sera. Sorpreso, pensò: "Dev'essere un'allucinazione. Joan Hiashi con le lacrime agli occhi? Impossibile".

Lei continuò, con tono leggermente malinconico: — Mi trovo di fronte a un problema. — Distolse lo sguardo, poi riprese: — Non possiedo niente e non desidero niente. Ho raggiunto la condizione che nel corso dei secoli è stata la meta dei santi, e ora... ne ho abbastanza.

— Joan — disse Paul, con un'emozione che non riusciva a nascondere — non ti sei accorta che in quello che hai detto c'è una contraddizione? Tu desideri qualcosa.

— Una cosa che non potrò mai avere. — La voce della ragazza era soffusa di tristezza.

— Non è vero. — Con la mano destra fasciata, Paul le sfiorò dolcemente una spalla. — Il solo fatto che tu voglia rientrare nel mondo di una realtà condivisa da tutti significa che la battaglia è già vinta a metà. Adesso che desideri qualcosa, io posso aiutarti. Se me lo permetti, naturalmente.

— Mi insegnerai? — La grigia coltre di disperazione nella voce di Joan era un po' meno densa.

— Ti insegnerò a vivere in mezzo alla gente, e tu mi insegnerai a vivere solo.

Con voce sognante, Joan osservò: — Noi due insieme sappiamo tutto, vero? — Improvvisamente, si alzò in punta di piedi e lo baciò su una guancia.

Preso da un'euforia che lo indusse a ridere a gola spiegata, Paul s'incamminò lungo il marciapiede, gridando: — Taxi! Taxi!

Siccome non c'era un taxi libero, dovettero aspettare a lungo, uno a fianco dell'altra. Ma non si irritarono. Stavano bene così.

 

In genere, avendo un olfatto poco sensibile, Gus Swenesgard non era mai disturbato dagli odori, ma per qualche misterioso motivo, quello lieve di ozono e di elettricità che aleggiava nello studio televisivo gli dette fastidio. Pensò con irritazione: "Di tanto in tanto dovrebbero dare aria a questi ambienti". O era la prospettiva di quello che l'aspettava, a renderlo nervoso?

Tutto era ormai pronto per la trasmissione. Gus si era occupato personalmente della sistemazione dei cartelloni su cui avrebbe letto il discorso preparato in precedenza e, in aggiunta, aveva scelto la suggestiva musica patriottica che avrebbe fatto da sfondo alle sue parole.

Aveva persino scritto di suo pungo gli annunci che sarebbero stati trasmessi a intervalli, durante tutta la giornata, per avvertire il mondo dell'imminente grande evento.

Lanciando un'occhiata verso l'ingresso dello studio, vide entrare il dottor Paul Rivers. Dava il braccio a Joan Hiashi. Dalle mani fasciate e dal passo zoppicante, era chiaro che era incappato in un grosso incidente, forse a seguito degli eccessivi festeggiamenti. Sfoggiando il suo sorriso più diplomatico, Gus si avvicinò alla coppia col suo tipico passo da anatra, per salutarli.

— Ehi! — esclamò cordialmente, contento di vedere facce amiche. — Che ne dite dell'odore strano che c'è qui dentro? Oppure lo sento solo io, perché sono nervoso? — Sbirciò Paul con aria ansiosa, in attesa del responso di un competente.

— Io non noto niente — disse Rivers in tono gioviale.

— Be', voi non dirigete un albergo — ribatté Gus, aggrottando la fronte. — Non permetterei mai che nel mio ci fosse una puzza simile. I clienti si lamenterebbero. — In quel momento ebbe l'impressione che Paul Rivers si burlasse di lui. Gli lanciò un'occhiata sospettosa, ma l'altro pareva assolutamente serio. "Si vede che mi sta venendo la paura del pubblico", pensò, asciugandosi sulla fronte le grosse gocce di sudore un po' unte che, come sempre, gli imperlavano la faccia chiazzata di rosso.

— In onda fra cinque minuti — disse un tecnico magro, con gli occhiali. — Cinque minuti, signor Swenesgard — ripete, prima di correre via frettoloso.

— Volete un tranquillante? — gli propose Paul Rivers.

— No, no, starò benissimo — mormorò Gus. In preda all'agitazione, entrò nel camerino che gli era stato assegnato e ingollò un bel sorso dalla bottiglia di whisky. Pensò soddisfatto: "Questo è l'unico tranquillante di cui Gus Swenesgard abbia bisogno".

Udendo qualcuno aprire la porta, si affrettò a nascondere la bottiglia dietro la schiena. Era di nuovo il tecnico occhialuto. — Quattro minuti, signor Swenesgard.

— Andate via — disse Gus. — Mi rendete nervoso.

Il tecnico sparì, ma Gus, accigliato, non dubitava che sarebbe presto riapparso per dire: "Tre minuti, signor Swenesgard". Uscì dal camerino con passo pesante e prese posto dietro la grande tavola in stile moderno già sistemata davanti alle telecamere.

Alle sue spalle era appesa una vecchia bandiera anteguerra delle Nazioni Unite, che veniva esposta in pubblico per la prima volta dal giorno in cui i G.V. avevano occupato il pianeta. "Un ultimo tocco simpatico", pensò Gus.

— Tre minuti, signor Swenesgard.

Gus fu preso da una strana sensazione. Provava l'impressione di essere osservato. "Qualcuno mi fissa", pensò. Si guardò intorno. Sì, nello studio c'erano parecchie persone, compresi Paul Rivers e la ragazza giapponese, e tutti gli occhi erano puntati su lui. Ma non si trattava di quello.

"So di cosa si tratta", finì per pensare. "È la popolazione di tutto il mondo. È il sapere che tutto il pianeta mi fissa!"

Da un punto di vista logico, la spiegazione lo soddisfece, ma dal punto di vista emotivo continuò a provare una persistente sensazione di qualcosa di soprannaturale: un disagio, persino una paura, che non riusciva a spiegare razionalmente.

— Due minuti, signor Swenesgard. — Era il solito tecnico, con i soliti occhiali.

A Gus parve di localizzare la fonte della sensazione. Proveniva più o meno dai punto in cui era stato collocato il leggìo con i cartelloni del suo discorso, uno sopra l'altro. Ma lì vicino non c'era nessuno, e nessuno neanche nel raggio di tre metri dai cartelloni.

— Un minuto, signor Swenesgard.

Improvvisamente, Gus provò l'impulso di alzarsi e uscire dallo studio. Intuiva che restare lì e andare avanti sarebbe equivalso a cercare la catastrofe. Ma era troppo tardi: le telecamere avevano già preso a spostarsi per metterlo a fuoco, e un silenzio innaturale era sceso nella sala, appena si era illuminata la scritta "In onda".

Preso dal panico, Gus pensò: "Nello studio c'è qualcuno, o qualcosa, che ha deciso di incastrarmi".

L'annunciatore attaccò la presentazione. Adesso, accanto ai cartelloni c'era il tecnico con gli occhiali, pronto a voltarli a uno a uno. Ma era veramente l'uomo con gli occhiali? Nella zona dei cartelloni si era addensata una strana oscurità. A momenti Gus vedeva il tecnico, a momenti non lo vedeva.

Mosse la testa, cercando di schiarirsi la vista, ma non servì. Tremante, si disse: "E se non riuscissi a leggere i cartelloni?". Per fortuna, le scritte si presentavano abbastanza nitide. In quanto all'intermittente invisibilità dell'uomo incaricato di voltarle... be', in fondo i riflettori erano tutti puntati su lui, accecandolo quasi, costringendolo a sbattere spesso le palpebre. Forse era solo un effetto ottico, dovuto all'illuminazione.

Un dito spuntò da dietro una delle tre telecamere e indicò Gus. La trasmissione era iniziata.

Fissando i cartelloni come se fosse ipnotizzato, cominciò lentamente a parlare. — Signore e signori, buonasera, o buongiorno, o buon pomeriggio, secondo i casi, cioè secondo di dove diavolo vi capita di vivere su questo nostro grande, meraviglioso pianeta che Dio ci ha donato e che di recente ci ha restituito, siano rese grazie alla Divina Provvidenza. Io sono il vostro vicino, Gus Swenesgard, capo di un tranquillo e modesto governatorato che si chiama Tennessee e che si trova nel sud degli Stati Uniti. Può darsi che ne abbiate sentito parlare, in rapporto ai guai che abbiamo avuto con i partigiani negri. Mi presento in televisione così, senza formalità, per scambiare due chiacchiere con voi, da vicino a vicino, sulla situazione mondiale in cui ci troviamo proprio in questo momento, in parte grazie ai miei sforzi personali.

Il regista, che si trovava nella sala di controllo, lanciò un'occhiata al direttore della stazione televisiva, e i due si misero a ridacchiare. Gus se ne accorse. "Cosa diavolo c'è di divertente?", pensò, irritato.

Continuò con ostinazione: — Ora che i vermi sono stati cacciati via e i partigiani negri costretti ad abbandonare la zona delle colline, abbiamo il grosso compito di ripulire lo sporco che si è accumulato durante l'occupazione. A guardarmi, forse non si direbbe, ma io...

A Parigi, un barbuto proprietario di caffè allungò una mano per spegnere il televisore, che stava trasmettendo la traduzione simultanea del discorso di Gus, e nominò Cambronne.

A Roma, il Papa cambiò canale, in cerca di un buon western all'italiana.

A Kyoto, in Giappone, un maestro di Zen rideva talmente che gli venne un attacco di singhiozzo.

A Detroit, nel Michigan, un operaio di una fabbrica di aerauto lanciò una lattina di birra contro il televisore, spaccando lo schermo.

Ignaro di questi fatti, Gus continuò: — ...Forse penserete che l'uomo adatto dovrebbe essere un alto papavero militare, ma i nostri militari non ci sono più, senza contare che...

Qualcosa era andato storto. Il discorso non era esattamente come lui l'aveva scritto. Oppure sì? "Qualcuno l'ha modificato?", si chiese. "Oppure, hanno mescolato i cartelloni?"

— L'uomo adatto è uno come me, un pagliaccio...

Gus s'interruppe, lasciando la frase a mezz'aria, e rilesse il cartellone. Diceva proprio così: "Un pagliaccio".

Stavano cambiando il cartellone, ma Gus non vedeva la mano che lo teneva. Sul successivo c'era scritto: "Rapace e roboante demagogo di quart'ordine". E su quello seguente: "Ipocrita, egoista, pallone gonfiato, razzista".

"Oddio!", pensò Gus. "È proprio quello che mi ha detto la voce al videofono."

Non sapendo quasi quello che faceva, balzò in piedi e urlò: — Ehi, tu, vicino ai cartelloni! Chi sei? Cosa fai?

Le tenebre avanzarono verso lui, simili a una malvagia folata di vento: e una voce, la voce che lui aveva già sentito al videofono, disse: — Sono il tuo io interiore, liberato dallo schifo che provo per te e per quello che rappresenti, uscito dall'oscurità. Sono al di fuori del tempo e dello spazio, e ti giudico. — Poi le tenebre lo avvolsero, facendolo ripiombare nella magica e atroce condizione in cui si era trovato tanto di recente, privo di corpo nel silenzio vuoto, nel buio fitto, solo con il ricordo sempre più fioco della propria immagine riflessa nello specchio ingiallito e incrinato della stanza dell'albergo.

Urlò, ma non sentì il proprio grido.

 

Paul Rivers poteva invece sentirlo. E così il personale della stazione televisiva, e anche il mondo, o meglio la minuscola parte di mondo che ascoltava ancora, assistendo al fiasco di Gus.

Il direttore della stazione interruppe la trasmissione, sostituendola con la pubblicità di una marca di sigarette alla marijuana con filtro, le Berkeley Boo. "Un tubetto di sole della California."

Balzando in piedi, Paul si avvicinò zoppicando a Gus, pronto a offrirgli il suo aiuto: aveva visto il nebuloso vortice nero che si dirigeva velocissimo verso Gus, avvolgendolo, e poi spariva, rapido com'era arrivato.

Memore degli effetti dei proiettori d'illusioni di Balkani, Paul pensò: "Scommetto che il fenomeno è una specie di effetto postumo dell'arma infernale". — Cosa succede? — chiese a Gus, circondandogli le spalle con un braccio irrigidito.

— Siete un medico? — balbettò Gus, sbattendo le palpebre con aria intontita.

— Sì — disse Paul, consapevole che l'altro lo vedeva a malapena. — Lasciate fare a me — aggiunse, aiutandolo ad allontanarsi dalla zona illuminata davanti alle telecamere... e dalle sue speranze di potere politico e militare.

Nell'atrio, li aspettavano il dottor Choates e Ed Newkom. Vedendoli, Gus disse con voce tremante: — Come., come me la sono cavata?

"La verità sarà terribilmente dolorosa", pensò Paul, "ma non crederesti mai a una bugia." — Un disastro — disse a voce alta. — I sistemi di controllo, istantaneo danno questi risultati: quando la trasmissione è stata interrotta, solo uno sparuto gruppetto di persone, quasi tutte appartenenti al vostro governatorato, stava ancora guardandola. E questo, anche se all'inizio avevate il pubblico più numeroso che un uomo avesse mai richiamato in tutta la storia della televisione.

— Voi ve ne intendete di psicologia, vero, signore? — chiese Gus.

— Nessuno se ne intende più di lui — disse Ed Newkom.

— Volte aiutarmi? — Ansioso, Gus studiava la faccia di Paul. — Potete prepararmi un discorso che faccia cambiare parere alla gente e la convinca ad ascoltarmi? Potete insegnarmi come fare per riconquistare tutti?

— In realtà, avevamo intenzione di offrirvi i nostri servigi professionali proprio a questo scopo — disse il dottor Choates.

Paul guardò Gus ammirato. "Cadi", pensò, "Però in un attimo ti rialzi, pronto a ritentare in un altro modo, pronto a ingoiare la pillola amara dei tuoi errori. Non accetti mai la disfatta, e l'Associazione Mondiale di Psichiatria sarà felicissima di occuparsi della tua campagna... Servendosi di te come uomo di paglia, anche se naturalmente tu crederai sempre di tenere in mano le redini. Siamo abbastanza saggi per proportelo, e saremo la più potente forza politica esistente in questo caotico periodo di ricostruzione. Forse abbastanza potente per nominarti re, dopo tutto, almeno fino a quando non si potranno rimettere in moto le normali istituzioni democratiche."

Ripreso il dominio di sé, Gus si era messo a parlare animatamente con il dottor Choates, facendo piani, esponendo idee, formulando sconsiderate previsioni per il futuro. Sia il dottor Choates sia Ed Newkom annuivano, entrambi con un gran sorriso professionale, sereni nella loro consapevolezza di sapere dove risiedeva il vero potere.

Sì, Paul provava ammirazione per Gus; ma poi girò gli occhi sul dottor Choates, guardandolo forse per la prima volta con attenzione. Era un'impressione sua, oppure gli occhi del dottor Choates brillavano di una dura espressione calcolatrice?

Paul si scosse, sforzandosi di assumere a sua volta il sorriso professionale dei due colleghi. E pensò: "Se non possiamo fidarci di noi stessi, di chi possiamo fidarci?".

Gli parve una domanda sensata. Purtroppo, però, in quel momento non gli veniva in mente una risposta altrettanto sensata.

 

FINE